C’era una volta. Ma adesso? Appunti di metodo per leggere la nuova questione agraria

editoriale del 3 maggio 2021 di Gianni Fabbris*

C’era una volta il mondo contadino, un’Italia che non poteva nemmeno immaginarsi senza le sue campagne e la sua cultura rurale. In quella Italia e fino a circa tre decenni fa, il dibattito sull’agricoltura e il suo modello agricolo erano uno dei pilastri del confronto sullo sviluppo.

Poi venne la globalizzazione e il dibattito finì. L’Italia con la sua grande cultura della terra, il suo grande patrimonio agroalimentare uscì dall’impatto con la globalizzazione profondamente svuotata di senso. Svuotata nel senso fisico con le campagne e le aree rurali che si desertificavano di attività e di presenze umane e un dibattito che smarriva le stesse ragioni per alimentarsi.

L’Italia che aveva costruito il suo straordinario patrimonio agroalimentare grazie a condizioni storiche irripetibili e originalissime fondate sul lavoro, la diversificazione ambientale e naturale scopriva il Made in Italy come brand di mercato e si convertiva in una piattaforma commerciale che appiattisce e svuota di significati; il lavoro, il territorio e l’atto stesso del produrre.

Grande è stato il fallimento di chi, a cavallo degli anni ’80 e ’90, aveva promesso un meraviglioso futuro ai nostri agricoltori. O meglio … grande la loro fortuna almeno quanto grande è stato il fallimento di un’intera generazione di agricoltori che ha creduto alle bugie della liberalizzazione dei mercati.

Un milione di aziende agricole hanno chiuso in Italia dal 2003 ad oggi mentre la speculazione finanziaria ruba costantemente il valore aggiunto che chi rimana a lavorare continua a generare. Certo, si dirà, la crisi dell’agricoltura produttiva non è solo una questione italiana se è vero, come è vero, che in Francia ogni due giorni si suicida un agricoltore ma, ci chiediamo, di fronte al disastro dei numeri, gli apologeti della trasformazione italiana verso la moderna brutalità del neoliberismo, non sentono il dovere di dare una spiegazione?

Niente. Silenzio. Anzi tutto continua come se niente fosse, la nave continua a navigare alla deriva procedendo la sua navigazione che la sta portando a fracassarsi sugli scogli. Il che non è solo ridicolo ma è anche grave e pericoloso proprio in una fase come questa in cui ci sarebbe un grande bisogno di mettere in campo il progetto per rispondere alle grandi domande di cambiamento che salgono dalla società e che chiamano in causa, fra l’altro, direttamente il modo di come gestiamo il rapporto con la natura, di come produciamo, distribuiamo e consumiamo il cibo e fruiamo del territorio.

Il pericolo sta nel rappresentare come inevitabile il quadro esistente dell’agricoltura, quasi che la condizione in cui siamo fosse la “naturale” evoluzione di un percorso progressivo invece che essere la manifestazione della crisi drammatica di modello che è in realtà e che, in sostanza, non andrebbe cambiato ma semplicemente efficientato.

Noi, al contrario, pensiamo che questo modello che ha prodotto e produce guasti sociali, ambientali, economici e di democrazia sia profondamente da “rivoluzionare” e che per farlo serva tornare ad una stagione di riforme.

Noi poniamo a fondamento di questa stagione la prospettiva e la proposta della Sovranità Alimentare, ovvero di un paradigma che declina i principi di una agricoltura dei diritti, in un agroalimentare agroecologicamente compatibile e in una società giusta. Ma non basta. Occorre declinare questi principi forti già compresi nella proposta della Sovranità Alimentare in un progetto nuovo capace di agire qui ed ora modificando l’esistente.

Perché il progetto nuovo si dispieghi occorrono che si realizzino alcune condizioni; due sono imprescindibili.

La prima è che impariamo a rileggere la realtà e la sua trasformazione. In questi trenta anni di impatto con la globalizzazione nelle nostre campagne è accaduto di tutto; non è solo con l’analisi quantitativa che possiamo comprendere il perchè della perdita di senso e di valore che colpisce chi vive e lavora del lavoro della terra e nel mare. Gli stessi meccanismi del valore legati ai cicli del cibo, di come cioè si produce la ricchezza (o si distrugge) sono cambiati profondamente. Comprendere cosa oggi significhi l’agricoltura nel tempo della crisi e cosa invece potrebbe essere con il suo superamento e con una transizione ad altri modelli socialmente condivisi fa la differenza fra l’immaginare un futuro e vedere la possibile alternativa o rassegnarsi ad avere un’agricoltura come reparto all’aperto della produzione industriale e dominata dagli interessi e dai modi del mercato. Il progetto nuovo deve partire dal capire la trasformazione intervenuta, leggendola autonomamente fuori dalla demagogia e dalla propaganda con cui ci viene celebrato quotidianamente la marginalità dell’agricoltura. Non ci sarà progetto nuovo se non saprà interpretare e rileggere l’esistente

La seconda questione è che non ci sarà “rivoluzione” senza i rivoluzionari. Chi sono oggi i soggetti che hanno interesse a cambiare e che, prendendo coscienza, si mettono in campo. Quali sono i loro bisogni? In che modo scatta il riconoscersi in un soggetto consapevole e collettivo che spinge la trasformazione? Come teniamo insieme la naturale spinta a guardare al futuro dei tanti giovani che si stanno avvicinando all’agricoltura (evitando che siano risucchiati nella spirale della crisi per non aver elaborato adeguatamente le alternative su cui impegnarsi) e la generazione di quanti hanno fallito nei decenni scorsi (non per loro incapacità ma per aver accettato l’omologazione acritica al modello dell’agricoltura neoliberista)?

Domande epocali che non possono attendere risposte lontane. Questo mondo sta prendendo una china pericolosa. Le sue risorse sono finite …. nelle tasche di troppo pochi. E non possiamo attendere generazioni. Serve aprire ora la prospettiva del cambiamento e mettere in campo il movimento che ne edifica le condizioni e, per farlo, ci servono strumenti nuovi e adeguati agli obiettivi a partire da quelli che sapremo dispiegare per leggere e capire la realtà.

L’Alleanza Sociale per la Sovranità Alimentare sta mettendo in campo una proposta cui lavoriamo da tempo. Nasce in questi giorni il “Centro di Documentazione e Ricerca per la Sovranità Alimentare e la Nuova Riforma Agraria”. Nasce per costruire uno spazio di lavoro comune fra chi lavora la terra, militanti del movimento contadino, tecnici, uomini e donne di scienza. A tema lo sviluppo di un lavoro condiviso in cui ognuno mette e prende quello che può e quello che viene dalla sua esperienza provando a rileggere e documentare la realtà.

L’inchiesta “contadina” diventa cosi metodo permanente con l’obiettivo di reinterpretare la realtà, di ricostruire una cassetta degli attrezzi efficace a leggere la trasformazione, di fornire al progetto le parole e la sintassi che vengono dalla scelte di restituire senso e valore al lavoro della terra e della pesca, al produrre, distribuire e consumare il cibo ricostruendo modelli socialmente condivisi.

Sta nascendo in questi giorni il nucleo di questo percorso che avrà un primo banco di prova, quello di fornire alla Marcia 2021 per la Nuova Riforma Agraria ed Agroecologica un piano operativo su cui raccogliere le prime risposte, a partire da tre obiettivi su cui impostare il lavoro di lungo periodo: disegnare e raccogliere una “mappa delle crisi”, una “mappa delle resistenze e delle buone pratiche”, quella “delle disponibilità”.

A cosa? Per cosa? Disponibilità a mettersi in gioco e a contribuire al lavoro comune e per mettere in campo un progetto che si fondi sulla realtà e non sul riprodurre ormai inutili categorie morte come il passato che vogliamo superare.

L’Inchiesta Contadina potrà essere, cosi, la trama su cui tessere il progetto e non perché si occuperà “solo” dei contadini e dei pescatori (ovvero di chi nella terra e nel mare lavorano) ma perché guarderà a tutta la società per quanto sarà mossa da e con loro come i nuovi protagonisti del cambiamento.