Le bandiere infangate, sventolate da lobbisti sbandieratori. Riprendiamocele

editoriale del 12 aprile 2021 di Gianni Fabbris

C’erano una volta i sindacati agricoli ed oggi non ci sono più; cosi potrebbe iniziare il racconto da cui partire per questa settimana su Radio Iafue che propone tre parole su cui ragionare: bisogni, rappresentanza, sindacato.

Potrebbe iniziare cosi e potrebbe anche concludersi qui se non fosse che noi non ci arrendiamo a questo esito, non possiamo accettare che la rappresentanza degli agricoltori e di chi lavora la terra sia cancellata per convertirsi in Uffici del Pratichificio Permanente sotto i colpi di una burocrazia che trasforma i diritti sociali nelle carte bollate e sbarra la strada alle istanze di cambiamento o, peggio, nella brutale azione delle lobbies che usano le sigle sedicenti sindacali per mettere le mani sul malloppo dei finanziamenti pubblici e privati che girano attorno all’agricoltura.

C’era una volta un tempo in cui i sindacati agricoli avevano un’anima, interpretavano una politica, rispondevano a i bisogni che esprimevano gli uomini e le donne che vi si riconoscevano e vi aderivano in nome di prospettive, culture e idee diverse e si battevano con proposte e politiche diverse.

L’Alleanza Contadini prima, la CIC (Confederazione Italiana Coltivatori) poi, venivano dal solco delle grandi lotte della sinistra per la terra, organizzavano i loro bisogni sulla spinta delle grandi istanze della Riforma che era stata a fondamento della stagione di Di Vittorio, sostenuti dai grandi partiti della sinistra.

La Confagricoltura organizzava “gli agrari” le grandi imprese ed, esattamente come ha sempre fatto la Confindustria, ha sempre operato per sostenerne le ragioni e gli interessi con proposte e politiche coerenti spesso in relazione diretta con settori politici di destra.

La Coldiretti: il potere della Democrazia Cristiana, la cultura delle famiglie contadine cattoliche, il legame con una Chiesa anticomunista, una idea di agricoltura interpretata su base popolare larga e, fin da subito nella doppia dinamica di relazione con il Governo e nel coinvolgimento pieno delle famiglie rurali.

Era la fase dell’agricoltura nazionale protetta da politiche nazionali ed era la fase della competizione nelle campagne fra visioni diversi della società e quindi dell’agricoltura fondata sull’organizzazione di blocchi sociali che vi si riconoscevano e che partecipavano di un confronto/scontro nazionale fra visioni alternative sulle strategie da mettere in campo e (conseguentemente) sulle misure da adottare.

Poi venne la fase della liberalizzazione dei mercati, in parte subita, in parte determinata proprio da questi sindacati insieme a tutte le anime politiche che li esprimevano. Così come le loro fonti politiche di riferimento, le Organizzazioni Professionali agricole assunsero (tutte) il modello della globalizzazione dei mercati come inevitabile o addirittura desiderabile. La modernità del nuovo ordine liberista divenne per tutti loro un tratto comune che, velocemente, fece scomparire le differenze sostanziali. Apertura delle frontiere, rinuncia alle politiche di protezione, accettazione del primato del mercato furono le regole per tutti.

Con la loro piena complicità si preparò cosi la crisi che avrebbe portato velocemente al massacro delle aziende nelle campagne facendo indebitare enormemente con le banche una intera generazione che credette loro, ripagandola con la competizione selvaggia di prezzo al campo accelerata dal dumping e dalle delocalizzazioni, trasformando, nei fatti, il nostro agroalimentare in una piattaforma commerciale con la speculazione e la gdo che rubava valore aggiunto sulla pelle di imprese e lavoratori.

La competizione fra le vecchie centrali sindacali diventava, cosi, efficientamento del sistema, con un processo che avrebbe portato a chiudere le aziende ma, soprattutto, che rendeva gli agricoltori sempre più dipendenti dall’unica fonte certa di reddito: gli incentivi del pubblico. Una mole enorme di denaro dei contribuenti usato producendo assistenzialismo e dipendenza.

Coldiretti, CIA, Confagricoltura si sono, cosi, specializzati nel gestire questa mole enorme di denaro tenendo sempre più “sotto schiaffo gli agricoltori” costretti a rivolgersi a loro pur di avere garantito l’accesso a quegli incentivi che avrebbero dovuto essere un diretto ma che, invece, venivano usati spesso dalle Organizzazioni per tenere legati a se i propri “iscritti”. Se, poi, in questi passaggi di denaro (PAC, PSR, ecc..), una parte delle risorse rimaneva per finanziare le Organizzazioni sedicenti sindacali, era parte dello scambio con la politica: io mantengo la pace sociale nelle campagne tenendo legati (ricattando in realtà) gli agricoltori, tu mi lasci campare.

La PAC, cosi, convertendosi da strumento di wellfare regolatore delle politiche in luogo delle scorribande delle lobbies diventa il cappio al collo degli agricoltori: l’accesso agli incentivi passando per i sindacati, la “mazzetta” o il “pizzo” da pagare al sistema.

Ma la crisi delle aziende travolge con se anche gli impermeabili “Sindacati Agricoli”, è inevitabile. CIA, Coldiretti e Confagricoltura perdono consensi ed iscritti e cresce una vasta area di sigle che, venuta meno la funzione politica e sociale del sindacato, hanno proposto servizi. Circa il 50% degli agricoltori italiani esce, cosi, dall’adesione alla triplice e approda a sigle dal debolissimo o assente profilo sindacale, messe in piedi per “prestare servizi”. Il processo è talmente esteso che nascono esperienze di aggregazione che si professano “alternative” come è stata la COPAGRI che è riuscita a “tenere insieme” numeri di prima grandezza tali da insidiare e sfidare il sistema associativo dei sindacati storici.

Esperimento fallito ed azzerato, come era inevitabile che fosse, dal momento che la COPAGRI non ha mai messo in campo un progetto alternativo, una visione dell’agricoltura, una capacità di sviluppare proposte capaci di costruire un’alternativa al modello della crisi. Un fallimento annunciato per il peccato originale di aver immaginato un progetto che metteva insieme i numeri dei servizi senza un’anima e senza assumere la responsabilità vera di mettere in campo un progetto per l’agricoltura che dicesse con chiarezza come e per chi ti stai battendo e soprattutto “contro chi”. Altrimenti fai lobby e non sindacato.

E’ in questa tenaglia che è venuta avanti nelle campagne la sfiducia profonda dei sindacati, sempre più mal sopportati e di cui gli agricoltori farebbero volentieri a meno. Il sindacato ha di fronte a se una sola via se vuole salvare il proprio onore: deve ricostruirsi sulla capacità di avere un progetto chiaro e di dire con chiarezza chi vuole difendere, da chi e come.

Oggi che l’agricoltura italiana è arrivata al capolinea ha più che mai bisogno del progetto nuovo fondato sulla Sovranità Alimentare e sulla Riforma del sistema, quindi sul suo profondo cambiamento e non sulla sua ottimazione. La modernità che serve ai nostri agricoltori ed al Paese è quella di campagne vive con uomini e donne al lavoro, con imprese responsabili e gratificate nel reddito e lavoratoti nel salario, che gestiscono un territorio ed un’agricoltura fondata sull’agroecologia e il cibo dei diritti.

Il modello agroalimentare della globalizzazione neoliberista che ci hanno imposto dagli anni ’90 è fallito e con esso sono falliti i sindacati che lo hanno voluto, interpretato e gestito. Serve un modello nuovo e serve una rappresentanza nuova. Serve un grande patto di società attorno alla Sovranità Alimentare e un sindacato che lo persegua aprendo una nuova stagione di mobilitazioni per tornare a difendere le terre dai nuovi latifondisti e restituisca dignità a chi lavora.

Serve restituire dignità alle bandiere infangate del sindacato dipingendole di altri colori diversi da quelli vecchi, logori, sbiaditi ed insignificanti del passato; serve il progetto e serve la Riforma della rappresentanza, rompendo con il fitto reticolo di norme costruito negli anni che permette loro di sedere nei consigli di amministrazione degli enti o di trasformarsi (come stanno pericolosamente facendo) in procacciaotori d’affari quando non direttamente (come è il caso della Coldiretti) in imprenditori spregiudicati essi stessi, con i dirigenti sindacali nella veste di capitani di imprese magari costituite come Società per Azioni.

Noi siamo in campo con LiberiAgricoltori, un luogo di persone e imprese libere, che punta a costruire uno spazio autonomo e indipendente, una Confederazione che in pochi anni ha fatto passi da gigante mettendo in campo strumenti efficienti come il Centro di Assistenza Agricola, diffondendosi sul territorio (oltre 50.000 iscritti), sedendo ai tavoli istituzionali dove cercano in continuazione di escluderci, avviando un dibattito franco e puntuale sulla politica agricola. Ma per fare cosa?

Sia chiaro: finora con LiberiAgricoltori, siamo riusciti a tenere il piede nella porta, impedendo che si chiudesse e che nella stanza dove lor signori gestiscono gli affari con la politica, avvenga tutto senza testimoni; almeno, sentano il fiato sul collo e gli sguardi di chi non si fa corrompere. Non basta. Serve la spallata, serve che quella porta si spalanchi e che in quelle stanze irrompa il progetto dell’agricoltura nuova di cui abbiamo bisogno e gli interessi trasparenti e giusti degli agricoltori e dei contadini e non delle lobbies.

Una spallata possibile solo se si estenderà il movimento rurale che chiede e si batte per la Nuova Riforma Agraria e se, insieme, sapremo costruire il sindacato nuovo. Perché il problema non è fare una sigla ma restituire senso alla rappresentanza ed all’autonomia