La mobilitazione permanente dei contadini in India contro le riforme volute da Modi

Sono settimane che va avanti la grande protesta dei contadini che a fine novembre, in massa, si sono spostati a bordo di trattori dal Punjab, dall’Haryana, dalle regioni del nord dell’India dove l’agricoltura è una delle attività cardine dei territori, fino ad arrivare a occupare la capitale con tre grandi presidi su altrettante strade che collegano Delhi agli stati vicini, conquistati dopo aspri scontri con la polizia. Qui, i 400.000 i contadini hanno deciso di accamparsi, senza alcuna intenzione di muoversi. 400.000. Tanti quanti sono gli agricoltori che negli ultimi quindici anni si sono tolti la vita a causa della povertà.

Lunedì 7 dicembre, i leader degli agricoltori hanno incontrato il ministro degli interni Amit Shah, anticipando che non avrebbero accettato alcun compromesso e ribadendo, ancora una volta, la richiesta non mediabile di “un sì o un no” alla cancellazione delle tre leggi di riforma del settore agrario, approvate dal governo. La mobilitazione è culminata in un enorme sciopero generale (Bharat Bandh) al quale hanno aderito moltissime frange della società civile.

Durante la giornata di ieri, martedì 8 dicmbre, in gran parte dell’India, i treni non hanno viaggiato, le autostrade sono rimaste bloccate, i camionisti non hanno guidato: al Bharat Bandh, lo sciopero nazionale, avevano aderito decine di sindacati di varie categorie, letteralmente paralizzando gli stati del Punjab e dell’Haryana, e il territorio della capitale, oltre all’Odisha, e più a sud, al Telangana e all’Andhra Pradesh. A fianco delle sigle dei ferrovieri e dei trasportatori c’erano 25 partiti di opposizione, un’ampia rappresentanza delle associazioni della società civile, studenti, e alcuni ordini di professionisti, tra cui quello degli avvocati presso la Corte Suprema. Una larghissima mobilitazione in sostegno della categoria che rappresenta almeno metà della forza lavoro indiana.

Le proteste avevano iniziato a diffondersi circa tre mesi fa, quando, senza alcuna consultazione con le organizzazioni agricole, approfittando della crisi pandemica e della governance di emergenza, il governo Modi aveva approvato tre leggi per liberalizzare la vendita dei prodotti agricoli senza farle passare attraverso nessun dibattito parlamentare. La caratteristica principale di questo pacchetto di leggi è la cancellazione del tramite tra agricoltori e acquirenti, permettendo le transazioni dirette tra piccoli coltivatori e i colossi privati. A detta di Modi queste leggi avranno il grande beneficio di “liberare” l’agricoltura e gli agricoltori dai legacci dei comitati statali. Ma a che prezzo?

Fino a questo momento l’esistenza dei comitati statali con competenze agricole aveva permesso agli agricoltori di avere degli intermediari (regolati direttamente dallo Stato, appunto) in grado di comprare direttamente i prodotti, entrando in dialettica con i privati. Questo strumento faceva in modo di accumulare scorte strategiche che venivano poi redistribuite a prezzi bassi come razioni minime alle fasce più povere della popolazione, garantendo al tempo stesso un reddito quanto meno dignitoso ai produttori. In sostanza, permetteva l’accesso democratico al cibo (con tutte le contraddizioni dettate dalle misere condizioni della maggioranza della popolazione indiana). Lo smantellamento di questo sistema significherà solo una cosa: con la fine dell’intermediazione statale, i contadini saranno completamente in balìa dei privati, provocando una totale messa in discussione del sistema del prezzo minimo. Senza questa struttura i contadini saranno estremamente deboli nelle trattative con i giganti dell’agroalimentare, che compreranno direttamente i loro prodotti: senza tutele sul prezzo tutti, compresi i piccoli coltivatori (che ad oggi rappresentano l’86% delle comunità agricole), saranno schiacciati dalla corsa al ribasso.

Per Raoul Gandhi, leader del principale partito dell’opposizione, il governo è manovrato dalle “corporation e vuol rendere gli agricoltori schiavi dei capitalisti”. Negli ultimi incontri il governo ha assicurato il mantenimento del sostegno ai prezzi e ha detto di essere disposto a modificare alcune disposizioni, ma la fiducia degli agricoltori è bassa. L’acquiescenza dell’attuale governo nei confronti dei ricchi industriale è stata ampiamente dimostrata con le ultime politiche. La demonetizzazione che ha affossato milioni di posti di lavoro, la tassa sui beni e servizi che ha colpito le medie e piccole imprese, tutti attacchi che hanno convinto i contadini a non mollare la presa e a proseguire la mobilitazione, senza scendere a compromessi.