Se il nobel è alla carità, allora è ad un fallimento

Iafue PerlaTerra – 29.10.20
Editoriale di Gianni Fabbris*

Nel mondo, 836 milioni di persone vivono ancora in povertà estrema. Nei Paesi in via di sviluppo 1 abitante su 5 vive ancora con meno di 1,25 dollari al giorno. La povertà va ben oltre la sola mancanza di guadagno e di risorse per assicurarsi da vivere in maniera sostenibile.
Tra le sue manifestazioni ci sono anche la fame e la malnutrizione, l’accesso limitato all’istruzione e agli altri servizi di base, la discriminazione e l’esclusione sociale, così come la mancanza di partecipazione nei processi decisionali.
L’ultimo rapporto sullo Stato della sicurezza alimentare nel mondo ci dice che quasi 690 milioni di persone nel mondo hanno sofferto la fame nel 2019, ovvero 10 milioni in più rispetto all’anno precedente e poco meno di 60 milioni in più nell’arco di cinque anni; circa 2 miliardi sono in condizioni di insicurezza alimentare moderata o grave.
Bastano questi pochi numeri per capire che gli obbiettivi dichiarati dalle Nazioni Unite di porre fine entro il 2030 alla fame, raggiungere la sicurezza alimentare, migliorare la nutrizione e promuovere un’agricoltura sostenibile sono amaramente risibili.
A livello globale, è vero che l’incidenza della fame nel mondo è scesa dal 15% del 2000-2002 all’11% del 2014-2016, ma da allora non ha più compiuto progressi significativi. Della capacità degli Stati e delle Istituzioni di governo nazionale e mondiale di prendere sul serio questi obiettivi è difficile trovare traccia: gli investimenti nell’agricoltura dei singoli Stati in relazione al PIL sono scesi dallo 0,37% del 2001 allo 0,25% del 2013, ad eccezione del periodo compreso tra il 2006 e il 2008, quando la crisi dei prezzi dei prodotti alimentari costrinse i governi a effettuare maggiori stanziamenti.
E’ in questo contesto che qualche giorno fa il Premio Nobel per la pace 2020 è stato assegnato al World Food Program, il Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite che si occupa di assistenza alimentare ed è, nei fatti, la più grande organizzazione umanitaria del mondo assistendo una media di 100 milioni di persone in 78 paesi del mondo.
Si legge nella motivazione con cui è stato accompagnato il riconoscimento del Nobel al Wfp: “per i suoi sforzi per combattere la fame, per il suo contributo al miglioramento delle condizioni per la pace in aree colpite da conflitti e per il suo agire come forza trainante per evitare l’uso della fame come arma di guerra e di conflitto” e perché “in tempo di pandemia, ha dimostrato un’impressionante capacità di moltiplicare gli sforzi”.
Se questi sono i numeri e se queste sono le motivazioni, allora il Nobel per la Pace 2020 è assegnato ad un fallimento.
E’ vero che sempre più negli ultimi anni abbiamo registrato come l’assegnazione di quello che può essere considerato come il massimo riconoscimento morale mondiale sia diventato sempre più una esortazione “politica” ad agire indicando direzioni su cui incamminarsi piuttosto che riconoscere risultati messi in campo (ricordate il nobel per la pace a Barak Obama il presidente della più grande potenza militare del mondo?) ma, proprio per questo, un Nobel assegnato “alla carità” corre il rischio di certificare amaramente proprio il fallimento.
Non tanto il fallimento degli obiettivi fissati dalle Nazioni Unite cui nessuno in realtà ha mai creduto, quanto il fallimento della ipocrisia di voler combattere la povertà, la fame e le guerre e di assicurare a tutti l’accesso al diritto al cibo ed alla pace senza, in realtà, mettere mano al modello ed alle cause che le determinano e le mantengono, ovvero al capitalismo del nostro tempo.
Lo sottolinea con forza Raj Patel (economista esperto di crisi alimentari); lo scrittore e attivista, autore di “I padroni del cibo”, dice “Io vorrei che il comitato per il Nobel smetta di concepire i sistemi alimentari come una cosa cui dare attenzione solo quando sono in crisi, e smetta di concepire i contadini come persone che hanno bisogno di carità, ma li veda invece come portatori di soluzioni nuove. L’obiettivo non deve essere quello di “gestire” la fame o “gestire” il cambiamento climatico, ma di mettere fine a queste cose. E questo si può fare solo con un impegno politico. La domanda da farsi è: come redistribuire la ricchezza?”
Bella domanda con cui, nel mondo, miliardi di persone fanno i conti quotidianamente cercando ed a volte mettendo in campo strategie e prospettive che le paludate stanze in cui i Nobel vengono decisi sembrano non conoscere e non vedere. Una domanda cui in tanti stiamo cercando di rispondere affermando, contro il modello dell’agroalimentare dominante imposto da questo capitalismo della crisi permanente, la proposta e i principi della Sovranità Alimentare fondati sui diritti e provando su quelli a investire nella capacità di resilienza dei popoli e delle comunità.
Ancora Raj Patel: “Stiamo registrando tassi di fame catastrofici in tutto il mondo. Ma la pandemia ci ha anche mostrato che le comunità che hanno sistemi economici e sociali più attenti alla cura dell’altro hanno fatto molto meglio nel contrasto della pandemia rispetto alle comunità con un’impostazione essenzialmente neoliberista, dove le persone devono cavarsela da sole. Penso, ad esempio, alla più grande baraccopoli del mondo di Mumbai, Dharavi, che è riuscita a contenere il virus molto meglio degli Stati Uniti. Sempre in India, la regione povera del Kerala, che investe molto nella sanità pubblica, ha fatto molto meglio di alcune zone molto ricche del paese. Al contrario in America, come in tutti i posti in cui gli interessi delle multinazionali sono molto forti, i lavoratori essenziali sono stati sacrificati in nome del mantenimento dei profitti. In Texas, dove vivo, i principali focolai di infezione si sono verificati negli stabilimenti di confezionamento della carne o nelle prigioni, che rappresentano entrambi imprese molto redditizie.”
Si, se io dovessi assegnare un nobel, lo darei a quanti si battono contro questo capitalismo e mettono in campo tutti i giorni strategie per andare oltre questo modello sociale, ambientale economico e produttivo che genera guerre, crisi ecologiche, ingiustizia sociale, fame e povertà.
E, dovendo scegliere, lo darei ai contadini ed ai braccianti che si battono per la Sovranità Alimentare, ovvero per un mondo in cui non ci sia bisogno del WFP.

Gianni Fabbris è il Presidente della Rete PerlaTerra, della Presidenza nazionale di LiberiAgricoltori
e coordinatore editoriale di Iafue PerlaTerra