editoriale del 22/6/21 di Nicola Vinciguerra
Vorrei provare, nel tempo della radio che è tiranno, a intrecciare le parole disabilità, natura ed educazione. Con l’auspicio di fornire spunti di riflessione suscettibili di approfondimento e integrazione da parte di chi ha piacere di farlo.
Se ci chiediamo cosa è la disabilità e chi sono i disabili, di solito pensiamo alle persone che risiedono in apposite strutture residenziali, o che frequentano centri diurni, o che hanno un sostegno e un assistente educativo a scuola, o affiancate e/o assistite da educatori, oss, altri operatori sociali e/o volontari, o a vario titolo in carico ai servizi sociali etc etc…, in generale, pensiamo a persone affette da deficit, menomazioni e handicap, termini che hanno chiaramente una connotazione negativa.
Possiamo provare però ad ampliare la nostra visione e partire da termini che contengono una prospettiva molto più favorevole, come quelli di attività e partecipazione sociale. Ponendo al centro le potenzialità delle persone nel loro interagire con le condizioni ambientali, la disabilità viene definita dall’ICF (Classificazione internazionale del funzionamento, della disabilità e della salute, Organizzazione Mondiale della Sanità, 1999) come “la conseguenza
o il risultato di una complessa interazione tra la condizione di salute di un individuo, i fattori personali e quelli ambientali che rappresentano le circostanze in cui vive l’individuo. A causa di questa relazione, ambienti diversi possono avere un impatto molto differente su uno stesso individuo con una certa condizione di salute. Un ambiente con barriere, o senza
facilitatori, limiterà la performance di un individuo, in altri ambienti più facilmente potranno invece favorirla”. La salute è vista, quindi, come la discrepanza o meno fra le richieste dell’ambiente, culturale e sociale, e le prestazioni del singolo. La stessa cosa vale per la disabilità, la quale non è da considerare come un problema di un gruppo minoritario all’interno della comunità, quanto piuttosto come una condizione che ognuno può sperimentare durante la propria vita in un contesto ambientale sfavorevole.
Riguardo la natura, molteplici possono essere le definizioni a partire da molteplici punti di vista. Nella condizione presente, ad ogni modo, mi sembrano predominanti visioni e considerazioni della natura che hanno come comune denominatore l’alienazione e la divisione fra uomo e natura, sia che si tratti di alienazione e divisione derivanti da modelli
culturali predatori ed estrattivisti sia che si tratti di modelli culturali conservazionisti (rilevante la critica mossa da Survival International al movimento conservazionista e al concetto di wilderness sul quale si fonda, critica legata agli impatti sociali della creazione di aree protette e parchi, che includono lo sfratto e l’allontanamento delle popolazioni locali, solitamente ma non esclusivamente, indigene o tribali, dai loro territori). In sostanza, mi
sembra diffusa e ampiamente maggioritaria, per quanto riguarda il rapporto e la relazione con la natura, una condizione di disabilità e malattia grave. Tanto che Richard Louv, giornalista e scrittore americano, in uno dei suoi libri più famosi, “Last child in the Woods” del 2005, parlò di disturbo pediatrico da deficit di natura, un disturbo che coinvolge prettamente bambini che vivono in agglomerati urbani, molto spesso grandi città, e che non hanno contatti frequenti con ambienti verdi. Il disturbo è stato poi studiato e osservato da medici e ricercatori, che lo hanno associato e integrato con alcune moderne malattie infantili, evidenziando come, ad esempio, l’assenza di panorami naturali e di semplici attività rurali o campestri possa favorire condizioni di difficoltà di attenzione e socializzazione, come l’ADHA (disturbo da deficit di attenzione e iperattività), oppure facilitare la comparsa di depressione, disturbi comportamentali, asma, infezioni respiratorie e disordini metabolici come l’obesità. Credo, comunque, si possa affermare che il disturbo da deficit di natura non riguarda e non influisce solamente su bambini e giovani, ma su qualsiasi fascia d’età, sociale e stato di salute della popolazione. Conseguenze drammatiche del divorzio forzato tra uomo e natura sono state e sono tuttora le percentuali elevatissime di suicidi, sia tra bambini che tra adulti, riscontrate nelle popolazioni indigene, come ad esempio, ma non solo, i Guarani in Brasile e gli Innu in Canada.
Penso che nella nostra società e nella nostra politica la questione di quella che possiamo individuare come disabilità di massa nel rapporto con la natura merita la stessa attenzione che si sta dedicando alla via tecnologica per la cosiddetta “transizione ecologica”. Un cittadino alienato con disturbi da deficit di natura che fa l’ambientalista, che vuol salvare la
natura, che sostiene la “svolta green” e la “green economy” mi fa anche più paura del cittadino alienato con disturbi da deficit di natura che opera e agisce con dichiarati ed espliciti intenti sviluppisti, crescisti, industrialisti e miseramente economici. E, come piccolo contadino e apicoltore, non vorrei che le zone rurali e i loro abitanti continuino a pagare il prezzo di un modo di vita malato e disturbato che non manifesta al momento l’intenzione di mettersi in discussione se non nell’apparenza di nuove “tecnologie pulite”.
La relazione viene prima delle tecniche, anche e soprattutto la relazione con la natura e la terra. Una relazione alienata e disturbata non darà mai buoni frutti… neanche se ammantata di efficientamento energetico e presunta sostenibilità. Sostenibilità per chi e sulla pelle di chi?
Venendo all’ultima delle tre parole indicate all’inizio… Educazione. Siamo tutti educatori ed educandi, direttamente e/o indirettamente. E tutti necessitiamo di nuovi/vecchi apprendimenti secondo quella che chiamerei pedagogia della terra o della natura, perché tutti, chi più chi meno, viviamo in una zona grigia in cui siamo al contempo vittime e carnefici nel disastro ambientale e sociale che stiamo vivendo. Per parte mia, vorrei se possibile, in un successivo appuntamento su radio iafue per la terra, proporre alcune questioni pratiche, piccine, banali ma concrete del e nel lavoro educativo con persone disabili (e possiamo esserlo tutti persone disabili, in primis i soggetti individuati come educatori) volto alla rifamiliarizzazione possibile con la natura mediante l’orticoltura sociale e l’agricoltura sociale in generale. Già intravedo un insidioso e subdolo pericolo, sempre presente quando si tratta di disabilità: riconfermare lo stigma che si crede di star combattendo, controllare mentre si crede di prendersi cura… in questo caso, riconfermare la distanza e l’alienazione dalla natura che si vorrebbe invece eliminare o perlomeno ridurre.
Alla prossima puntata. Grazie.
*Nicola Vinciguerra è apicoltore nelle Marche, componente del direttivo di Altragricoltura
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