I signori del cibo e noi. Note a margine del libro di Liberti sulla filiera agroalimentare

editoriale del 20.5.21 di Fabio Sebastiani

Il cibo, l’alimentazione ma anche il consumo e la fruizione di ciò che ci dà la vita e l’integrità nella nostra epoca di grandi fragilità è tornato ad essere di grande attualità. Ce lo dicono i numeri delle inchieste dei grandi istituti di ricerca, ed anche alcuni indicatori economici. Se durante la pandemia i cittadini si sono rivolti istintivamente al negozio di prossimità o al piccolo produttore del territorio una ragione ci sarà. Se durante il lockdown è aumentato il consumo del cibo biologico e le persone hanno riscoperto la pratica di prepararsi da mangiare in casa non è il risultato del capriccio degli dei.
Il cibo come prodotto dell’agribusiness – il latte che sgorga dagli scaffali della grande distribuzione, tanto per intenderci – una delle sette meraviglie della società dei consumi a fianco alla plastica, alle automobili, e poi computer, telefonini, la casa al mare per tutti, televisione e bancomat, comincia a mutare la sua consistenza concreta. Verrebbe da dire finalmente, ma non è così. Sarà un processo lento il ritorno del cibo alla sua materialità naturale, alle sue origini. Non noi, ma tante ricerche scientifiche dimostrano come la lavorazione degli ingredienti naturali ha un limite superato il quale diventano veleni. C’è una ragione, ovviamente. Così come c’è una ragione nel fatto che si può creare profitto solo se si supera questo limite.

Non sarà così facile creare un luogo, innanzitutto culturale, per fare in modo che l’alimentazione torni ad essere un fatto normale per i nostri corpi, e non un prolungamento della catena produttiva del capitale, una funzione del profitto. E’ un po’ come la vicenda del petrolio. Sono più di cinquant’anni che gli studiosi ci ripetono che ci porta alla catastrofe sanitaria e ambientale. Eppure dopo mezzo secolo siamo ancora qui a dirci che dobbiamo uscire dall’energia fossile.
Se proviamo a leggere la società dal punto di vista di ciò che consumiamo è evidente che ripiombiamo nell’epoca medievale dove da una parte c’è una elite al comando e tutto intorno il vuoto. E, a una distanza incolmabile, ecco comparire la massa, il popolo anonimo che dietro la finzione della democrazia consuma la sua schiavitù. Chi vive del prodotto della terra è continuamente ricattato. Chi deve procacciarsi il cibo deve averne i mezzi. E per procurarsi i mezzi deve anche lui sottostare al ricatto. Esattamente come secoli fa, oggi non è cambiato nulla.
I signori del cibo sono così potenti da aver trasformato in oro anche una tragedia storica dell’umanità, la fame. Anzi, hanno fatto di più, prima hanno creato il problema della fame ricattando intere popolazioni con il loro potere, e poi lo hanno trasformato in business. Risultato, nonostante la globalizzazione oggi milioni di persone soffrono ancora la fame.
I signori del cibo non sono una invenzione letteraria, sono qualcosa di molto concreto. Sono un manipolo di multinazionali, quelle che impongono, per esempio, ai paesi del mediterraneo di rinunciare al tonno rosso, perché è più conveniente esportarlo nei mercati più ricchi e invece consumare il tonno di un qualche mare lontano migliaia di chilometri.
Oppure, imporre alla Costa d’Avorio una moderna schiavitù minorile nel settore del cacao, di cui quel paese è ricchissimo. Finalmente, è notizia di pochi giorni fa, ci sarà un processo percolpire gli autori di queste nefandezze. Gli esempi potrebbero essere a centinaia. Quello che è accaduto ultimamente nel Parlamento italiano dove una manina furbetta ha tentato di depenalizzare i reati legati all’adulterazione del cibo ha dell’incredibile e dimostra come sull’alimentazione ci sono interessi forti che, esattamente come nel caso del petrolio, non hanno intenzione di mollare la presa.

Il monopolio dei signori del cibo è assoluto e molto, molto lucroso. Se ci pensate bene è un business tutto sommato facile perché non ha bisogno di alcun know how, ci pensa la natura e la tradizione alimentare dei popoli a fornirlo, e, in più, si basa su un bisogno indifferibile. E’ facile fare soldi in questo modo. Ma non tutti possono farlo perché c’è bisogno di tanto, troppo capitale. Oggi nell’era delle speculazioni delle commodities stiamo arrivando al punto che anche lo stesso bisogno originario può e deve essere manipolato perché questa è la legge del profitto.
E anche se questo sta compromettendo l’ambiente, come nel caso del consumo della carne, non fa niente. Dal punto di vista dei signori del cibo è un “incidente” già previsto. La morte di milioni di persone e lo stesso climate change hanno un peso quasi irrilevante nella loro “fame” di profitto.

Un sistema granitico che ha cominciato ad incrinarsi di fronte a un fatto di portata catastrofica, la pandemia. Uno scossone vero e proprio che finalmente sta inducendo le persone a riflettere. Sul ruolo degli allevamenti intensivi, per esempio, sulla zoonosi, la trasmissione del virus dagli animali all’uomo e viceversa. La salute è diventato improvvisamente il problema. Dobbiamo partire da qui per riconquistare le posizioni, metro dopo metro. E in questo il ruolo che giocherà la politica non sarà di secondaria importanza. La Pac, per esempio, con il suo carico di veleni, non è qualcosa che riguarda solo gli agricoltori.

Il fatto che nella percezione delle persone il tema del cibo torni a legarsi alla salute va sicuramente valorizzato. Non possiamo lasciarci scappare questa occasione. La pandemia non è e non sarà un fatto marginale. E questo ripensamento profondo dell’opinione pubblica non è una moda. Da un po’ abbiamo osservato che la scelta di tornare a coltivare la terra e trarre da essa il buon cibo è addirittura tornata a saldare l’etica con l’economia. Si torna alla terra non perché costretti ma perché parte di una scelta responsabile. E’ questo orientamento, tra gli altri, che va rafforzato. Va quindi vinta la battaglia contro i signori del cibo anche a partire da queste piccole fiammelle. E va fatto subito, non si possono aspettare altri 50 anni. Sarà davvero troppo tardi. Non c’è un piano B. O il profitto di lor signori oppure la vita e l’armonia con la natura.

Parte di quanto sta accadendo in Europa, stritolata nel gioco di interessi dell’agribusiness che ha trovato proprio nel Parlamento europeo il suo cavallo di Troia, ci riguarda. E deve indurci alla mobilitazione se davvero teniamo alla nostra salute e alla nostra integrità. Pochi giorni fa c’è stato un duro e importante confronto tra i Fridays for Future e i vertici della Commissione europea. Un confronto davvero paradossale, se volete, in cui l’Europa ha dovuto ammettere la sua impotenza di fronte allo strapotere dei monopoli dell’agribusiness. E’ quindi arrivato il momento di tornare a riprendersi la parola. Se anche la politica e le istituzioni confessano la loro impotenza non è certo un buon segnale. Gli strumenti per sviluppare una adeguata campagna di massa e per far percepire alcuni diritti di base come la conoscenza della tracciabilità degli alimenti ci sono. Tutto è reale e tangibile. Quella che manca è la tessitura politica. E non a caso manca. Manca da parte di chi dovrebbe attivarla non nel nome di una parte o di una bandiera ma nell’interesse generale della società civile. Eppure questo non accade. Quello a cui assistiamo, come è tornato a segnalarci il nostro parlamento, è un mercimonio della rappresentanza a favore di lobby e interessi criminali. La parola ce la dobbiamo riprendere. Dobbiamo costruire una unità politica tra chi protesta contro il climate change, i contadini, gli agricoltori, i fruitori. E’ paradossale, non ci sono in realtà divisioni politiche su questo fronte. Quello che va superato è un gap culturale, un muro che assegna all’agricoltura un ruolo di secondo piano. Questo non è più vero. L’agricoltura ha una rilevanza strategica nella nostra salute e nella salute del pianeta.