editoriale del 17.05.2021 a cura di Roberto Rubino*
sotto il video del commento in diretta sviluppato dall’autore
La pandemia sta rendendo più evidente una contraddizione dell’agricoltura che dura da decenni e che finora è passata inosservata. In estrema sintesi possiamo racchiudere tutto in questa frase: i consumi aumentano, la produzione aumenta sempre un po’ più dei consumi e, quindi, i prezzi sono sempre stabili o al ribasso. Le conseguenze sono inevitabili e sotto gli occhi di tutti: ogni anno un certo numero di aziende deve chiudere, senza però che la situazione si risolva, perché chiudono le piccole aziende, che vengono subito fagocitate dalle grandi che aumentano a loro volta la produzione, perpetuando il circolo vizioso. A loro volta però queste aziende devono ridurre i costi, perché la concorrenza si è rafforzata e, quindi, lo fanno, e non possono che farlo, a scapito della qualità. Per fortuna, dall’altra parte c’è il controcanto di tutto un mondo variegato che va dai produttori alla stampa specializzata che non fa che tessere le lodi di un modello e di una gastronomia tutta fatta di prodotti unici, inimitabili, legati al territorio e così ci consoliamo anche se l’insapore è ormai alle porte.
Perché la pandemia ha dato uno scossone a questa deriva? Perché, pur non modificando il livello dei consumi totali, ne ha cambiato la qualità. I prodotti a basso costo hanno avuto un’impennata, mentre quelli diciamo “di nicchia”, i vini, i formaggi, i prosciutti di grande qualità hanno subito un freno nonostante l’esplosione della vendita per corrispondenza. Quindi, da una parte i magazzini dei piccoli produttori sono pieni e dall’altra la domanda in aumento ha spinto il settore a forzare ancora di più la produzione con risvolti le cui conseguenze si possono facilmente immaginare. Per esempio, nel mondo del latte, l’autoapprovvigionamento è schizzato al 90%, i prezzi sono già ora al ribasso e con l’estate, quando la produzione naturalmente aumenta mentre diminuiscono i consumi, la situazione si potrebbe aggravare. Ma a me non interessa tanto il rapporto produzione/consumo, per il semplice fatto che è un effetto, non una causa. A me interessa la sparizione delle piccole aziende, di quelle aziende e realtà che presidiano il territorio, quelle aziende che quasi sempre si limitano a modeste rese o mantengono gli animali al pascolo e, quindi, riescono a immettere sul mercato prodotti di grande livello qualitativo. So bene che, se la produzione aumenta meno dei consumi, qualcuno debba chiudere. Ma invece di far chiudere cento stalle con 20 vacche, quindi eliminando 2000 vacche, non è meglio far chiudere 4 stalle da 500 vacche? Salveremo più allevatori e la produzione diminuirà, con benefici per tutti, per il prezzo che aumenterà e per la qualità delle produzioni.
Perché chiudono le piccole stalle o i piccoli produttori di grano? Perché il prezzo del grano, del latte, delle materie prime è unico, uguale per tutti. Ma sappiamo che la qualità non è simile, anzi le differenze fra un grande vino, un grande olio, formaggio, pane ecc., e un prodotto analogo scadente possono essere enormi. Per produrre qualità occorre abbassare le produzioni. E questo è un assunto. Chi tiene basse le produzioni ha costi più alti e se poi quel prodotto gli viene pagato allo stesso prezzo dell’altro che proviene da sistemi intensivi, allora è una morte annunciata. Bisognerebbe legare il prezzo al livello qualitativo. Si può fare? Certo che sì! Si deve fare! C’è un sistema per legare il prezzo al livello qualitativo? Certo che sì! Semplifico al massimo: nei prodotti vegetali si tiene conto della resa e, nei prodotti di origine animale, dell’alimentazione e della quantità di concentrati.
Semplice, ma molto difficile da mettere in atto per due motivi. Il primo riguarda il livello qualitativo. Credo che nessuno o solo qualcuno sia d’accordo sul fatto che la resa e l’alimentazione influenzino il livello qualitativo. E l’altro, più determinante, è che chi è nelle posizioni decisionali trova perfetto il metodo del prezzo unico e della borsa merci. Non a caso le organizzazioni professionali pretendono il prezzo unico e uguale per tutti. Naturalmente tralascio quei tentativi di pagare la materia prima in relazione della qualità, se per qualità si intende la proteina per grano e latte o la resa per la carne. Tanto per fare un esempio, la pasta che costa di più ha il più basso contenuto di proteina e, viceversa, quella che costa meno ha il più alto contenuto. E comunque, la relazione fra questi parametri e il valore nutrizionale e aromatico se c’è, è negativa.
Ci spieghiamo così perché le organizzazioni professionali pretendono che sull’etichetta si indichi l’origine del prodotto, prima italiano, poi lombardo o lucano, poi del Parco e poi, perché no, del comune. Perché così tutto quello che è italiano è uguale e tutto torna e obbliga al prezzo unico.
Per me l’unica via d’uscita è quella di legare il prezzo al livello qualitativo della materia prima. Tutto il resto è noia, anzi omertà, collusione, rassegnazione.
*Presidente Anfosc
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