DONNE E TERRA. Relazioni di cura, non di dominio

editoriale di Miriam Corongiu* del 21 marzo 2021
già pubblicato da IL DUBBIO, quotidiano di informazione politica a giudiziaria
del Consiglio Nazionale Forense

L’importanza strategica delle donne in agricoltura è deliberatamente ignorata dalla società e dal sistema normativo vigente. Aldilà dei fondi stanziati con l’ultima legge di bilancio 2020 e una dotazione di15 milioni di euro, rifinanziata dalla Manovra 2021 con altri 15 milioni, molto oltre i numeri snocciolati dalle principali organizzazioni di categoria (sarebbero il 28% le donne al lavoro nella terra, con punte statisticamente stabili del 35% al sud), ciò che manca è la percezione generale di quanto siano enormi gli sforzi che noi contadine dobbiamo affrontare per poter essere quello che siamo.

La relazione che intratteniamo con la terra, a differenza di molti dei nostri colleghi maschi, è prevalentemente di cura, non di dominio. La perpetuazione delle sementi libere, l’agroecologia, la garanzia del cibo buono, sano e culturalmente appropriato alla storia dei luoghi sono appannaggio delle donne da sempre e la motivazione non risiede certo perché, per “genere”, siamo le più adatte. La cultura che ci ha voluto oppresse per secoli ha delegato a noi il lavoro di cura inteso come faticosissima sommatoria di lavoro domestico, assistenziale, prettamente contadino, senza che vi si attribuisse l’immenso valore che ha. E poco margine ha, infatti, anche in Italia la campagna internazionale per il reddito di cura che mira a inserire nel dibattito politico globale la centralità di questo lavoro, proprio mentre si parla di Green New Deal, Agenda 2030 e Strategia Farm to Fork come capisaldi di quella trasformazione che l’agricoltura deve cominciare a inverare al tempo dei cambiamenti climatici e del Covid19.

Non è forse vero che le donne contadine (e più in generale tutte le donne lavoratrici) non riescono ad occupare posti rilevanti nelle sedi decisionali anche per la totale assenza di politiche di genere? Non è forse sotto gli occhi di tutti che manchino servizi, accesso alla formazione, accesso al credito e perfino libero accesso alla terra che possano consentire alle donne di emergere in un campo prettamente maschile come quello dell’agricoltura? Non lasciamoci ingannare dalla carta patinata di alcune riviste che esaltano un certo tipo di imprenditoria agricola al femminile: perlopiù si tratta di aziende ad alto investimento di capitali, legate all’industria o a innovazioni tecnologiche che, a livello produttivo, ripetono l’economia lineare del passato e i gravissimi errori che paghiamo oggi in termini di desertificazione dei terreni ed impatto climatico.

L’azienda agricola che va sostenuta è quella di medio-piccole dimensioni con un’idea di modernità potentemente ecologica e sociale. Ma soprattutto, vanno sostenute e aiutate tutte le donne che, da braccianti, rendono possibile il lavoro aziendale. Agromafie ed ecomafie in questa terra vanno a braccetto: lì dove ci sono grandi appezzamenti, spesso c’è caporalato, sfruttamento sessuale, commercio a nero di pesticidi, smaltimento illecito di rifiuti, colletti bianchi collusi, distribuzione e trasporto marci fin nel midollo.

Alle braccianti, specialmente a loro, nel mese di marzo dedicato alle donne e alla lotta alle disuguaglianze di genere, deve andare il nostro pensiero ed essere indirizzato il nostro agire. E’ inaudito che nel 2021 nei nostri campi si facciano ancora “festini con i padroni”, si rinchiudano le donne nei ghetti e le si tratti come scarti.

La legalità, anche se poco ha a che fare con la giustizia, è comunque un traguardo da raggiungere. Lo ricordi la politica, lo ricordino l’impresa e l’economia a trazione maschile.


*Miriam Corongiù è contadina, ecofemminista, componente del direttivo nazionale di Altragricoltura, portavoce dell’Alleanza Sociale per la Sovranità Alimentare e fra le animatrici del collettivo “Tutte giù per terra”