Dal fango al sindacato di comunità: così nacque la comunità delle TerreJoniche.

da “Braccia Sottratte all’Agricoltura”
il blog personale di Gianni Fabbris su vociperlaterra.it

Fra il 28 febbraio e il primo marzo 2011 una disastrosa alluvione ha inondato le case, le terre, le aziende di chi vive fra le foci dei fiumi di Puglia e Basilicata lasciando dietro di se una devastazione con le ferite ancora aperte. Dal 2011 in sei anni nell’area delle TerreJoniche lucane e Pugliesi si sono succedute tre alluvioni, la frana a Montescaglioso, la tromba d’aria a Castellaneta, oltre un miliado di euro di danni, 7 morti, poi il disastro del gelo e della neve di gennaio.

Già prima del 2011 tanti altri eventi avevano sconvolto la vita del territorio, lasciandolo ogni volta più fragile e ogni volta i suoi cittadini più deboli. Il fiume, il Bradano, è il più grande bacino idrografico dell’Italia Meridionale che scorre passando continuamente fra il confine politico che divide le due regioni di Puglia e Basilicata, sfociando in un’area che fu ripopolata negli anni ’50 dopo la bonifica delle paludi per insediarvi gente coinvolta dalla Riforma Fondiaria.

Quel Marzo 2011, però, cambiò la storia recente di quelle comunità segnate da fatalismo, rassegnazione, frammentazione. Avvenne l’incontro di quelle persone colpite dagli effetti di quegli eventi con i militanti sociali di Altragricoltura, al lavoro da anni nel territorio per contrastare la crisi che era esplosa in tutta la sua virulenza.

Da quell’incontro nacque il Comitato per la Difesa delle TerreJoniche, una miscela esplosiva di partecipazione, ricerca del progetto nuovo e del recupero delle radici, di lotta; un percorso pedagogico che puntava a costruire uno spazio di consapevolezza su cui ricostruire una comunità conducendo una azione fortemente “sindacale”. Partendo, cioè, dai bisogni veri, dai problemi, dalla ricerca delle soluzioni, dall’individuazione dei percorsi.

Di quel comitato fui portavoce per oltre dieci anni. Nonostante fosse casa mia e fossero luoghi che conoscevo bene, rimasi profondamente colpito nei giorni in cui, passato il soccorso alle persone, cominciammo a costruire la paziente rete di mille assemblee nei caseggiati e nei borghi rurali colpiti. Facevamo l’assemblea decidevamo cosa fare e poi, alla fine, mettevamo in campo il piano d’azione provando ad allargare la partecipazione del territorio per mettere insieme le forze necessarie alla vertenza. Qui cominciavano i problemi. Tutto sembrava semplice, l’assemblea aveva deciso cosa fare e tutti eravamo d’accordo, non restava che andare dagli altri abitanti, agricoltori o meno che fossero, per spiegargli e coinvolgerli. La risposta che ottenevo era troppo spesso desolante.
“Ma io non li conosco, non ho rapporti” mi sentivo spesso ripetere.
“Come non hai rapporti? ma se abitano nella tua stessa strada di campagna” … “Si ma loro sono di origine di Noicattaro e la mia famiglia invece è della provincia di Potenza”.
Scoprimmo cosi che la Riforma fondiaria, alle famiglie provenienti da paesi diversi spesso distanti fra loro aveva dato si 4 ettari di terra, il casolare e le prime dotazioni ma li aveva lasciati divisi e separati. Gli anni che sarebbero venuti dopo avrebbero acuito queste separatezze, isolando ancora di più gli agricoltori in una idea di modernità tutta centrata sulla competizione e l’impresa, ognuno impegnato a produrre per non perdere il treno del benessere.

Quel treno è passato per pochi, lasciando dietro di se campagne in crisi con il mondo che si globalizzava e si perdeva il senso di fare una agricoltura di territorio, le aziende che venivano vendute all’asta coperte da una montagna di debiti maturati inseguendo investimenti che non venivano remunerati dal “mercato”.

La crisi, che era economica ma, anche, ambientale, sociale, culturale e di democrazia, produceva ulteriore isolamento lasciando le famiglie rurali sole spesso a fare i conti con i problemi senza servizi e senza più poter contare su reti di rappresentanza, di protezione, di solidarietà.

Capimmo subito che il punto vero su cui ci giocavamo la partita era quello di ricostruire una comunità, ricostruendo dal basso e con la partecipazione un progetto nuovo che, partendo dai problemi reali del presente e dai bisogni concreti, offrisse speranza per il futuro.

La stessa scelta iniziale di non chiamarsi “Comitato Alluvionati” ma “Comitato per la Difesa delle TerreJoniche” ha segnato un altro approccio di metodo per una iniziativa che si è mossa su due piani capaci di alimentarsi in continuazione: quello della ricostruzione della comunità e quello di una vertenza sindacale.

Iniziò cosi una esperienza straordinaria: tre anni di vertenza, 4 scioperi della fame, laboratori di formazione, una decina di blocchi stradali, una miriade di iniziative, assemblee, una manifestazione a Roma a Montecitorio, centinaia di incontri, convegni e seminari. Una esperienza possibile grazie al fatto che si pensò come un laboratorio partecipato che ha coinvolto sindaci, istituzioni cittadini e che ha costituito per molti anni (almeno dieci) un punto vivo e attivo sul territorio.

Molti i risultati concreti ottenuti: oltre trenta milioni di euro per il territorio, circa cinquanta di risarcimenti (che prima mai erano arrivati); soprattutto il venire avanti di una cultura e una coscienza del territorio nuovi che ha coinvolto i cittadini, gli agricoltori e le istituzioni.

“Per favore non chiamatele emergenze ed eventi eccezionali” scrivevamo nell’indire il Forum per la Difesa dei fiumi che tenemmo a Montescaglioso all’indomani della frana che stravolse il Paese “qui di eccezionale c’è solo l’eroica resistenza degli agricoltori e delle comunità a continuare a lavorare la terra e vivere in un territorio che paga tre prezzi: il cambio del clima che ci consegna eventi estremi sempre più normali, un territorio devastato ambientalmente e in crisi economica e sociale, l’incapacità delle classi dirigenti e della politica di dare risposte e di farsi carico delle soluzioni nonostante le numerose sollecitazioni e proposte avanzate”.

Qualche anno dopo, il Comitato fu protagonista di un’altra storia, quello che lo vide in prima linea difendere le aziende agricole dalla vendita all’asta per la crisi e lasciate alla mercé degli sciacalli di turno. Anche in questo caso con tanti risultati: la aste del territorio andavano deserte e nei fatti si erano fermate. Nessuno, di fronte all’azione costante del comitato ed al grande consenso popolare che incassava, aveva più il coraggio di presentarsi alle aste. Si verificava, cosi, quanto avanzato fosse il processo di costruzione della comunità fondato sulla solidarietà, che arrivava fino ad esprimere, nei fatti, quel “contropotere” necessario a contrastare il potere delle lobbies e delle cordate di affari che puntavano a mettere le mani sul patrimonio di storia e di fatica degli agricoltori in crisi.

Un capitolo che andrà raccontato nella sua “drammaticità”: tante aziende salvate, tanti costi pagati.

Fra questi costi ci fu l’incriminazione di 11 dei suoi componenti per aver difeso un agricoltore da uno sciacallo che aveva comprato per quattro soldi il frutto del lavoro di una vita e tutti gli investimenti di una famiglia. Fra queste 11 persone c’ero anche io che fui accusato di essere il capobanda, messo agli arresti e accusato di “rapina aggravata ed estorsione aggravata”. Tentavano di fermarci.

Costruimmo la difesa a partire dalle nostre ragioni e dal diritto ma, anche, fondandola sul grande consenso che il Comitato TerreJoniche aveva accumulato negli anni. Avemmo ragione: fummo tutti assolti dopo un lungo processo e la Procuratrice della Repubblica di Matera, che ci aveva perseguito, fu trasferita.

Il “sindacato di comunità” … una bel modo per immaginare il percorso di ricostruzione di una soggettività sociale, politica, culturale, etica, fondata sulla autonomia, sul progetto, la difesa degli interessi comuni e di quelli delle singole persone.

Oggi (nel 2021) quella esperienza è apparentemente silente ma in realtà, vive nelle tantissime iniziative che si continuano a produrre sulla base del suo percorso, nella coscienza dei tanti che vi hanno partecipato, nella capacità di quei cittadini che sono entrati nel Comitato spinti dal bisogno o da una generica istanza di solidarietà, per diventare, poi, dirigenti sindacali o, comunque, per maturare quel bagaglio di consapevolezze che li rendono capaci di reagire alla crisi e di partecipare al progetto.