Quando una comunità rurale rivendica il diritto al futuro, inizia la sovranità. Così nella Vald’aso

da Braccia Sottratte all’Agricoltura,
il blog di Gianni Fabbris ospitato da “VOCIPERLATERRA

Quando una comunità rurale rivendica il diritto ad essere informata, ad essere coinvolta sulla base del principio della piena responsabilità nella gestione dello spazio che occupa, a decidere del proprio futuro, allora comincia la Sovranità Alimentare. Niente a che vedere con l’autarchia, molto a che vedere con la democrazia e il diritto a sottrarsi al modello dell’agroalimentare della crisi che accumula in alto e nelle mani di pochi le ricchezze e scarica in basso e nei terrori le sue scorie insopportabili.

In effetti, di comunità resistenti ne ho incontrate tante nei decenni in cui con Altragricoltura abbiamo attraversato il lungo processo che sta tentando di omologare il nostro straordinario patrimonio agroalimentare (unico al mondo, fatto di mille vallate e innumerevoli biodiversità) al modello unico dominante della globalizzazione mercatista che vorrebbe ridurre l’agricoltura nel reparto all’aperto della produzione industriale e i cittadini tutti in fila alle casse della GdO.

In verità, nell’impatto con questo processo, i territori sono investiti da una crisi economica, sociale, ambientale, culturale che produce divisioni, separazioni, individualismi, rotture sociali, perdita di senso e della dimensione collettiva. Una dinamica che accompagna lo svuotamento delle nostre campagne che si desertificano delle attività di cura di una agricoltura sempre meno legata ai territori e che, in realtà, nega l’esistenza stessa delle comunità.

In questi territori della crisi, la miccia che fa scattare il fuoco che produce l’energia con cui si può riforgiare la forma di una comunità parte sempre dalla consapevolezza con cui gli agricoltori (comunque si vogliano chiamare: contadini, imprenditori agricoli, pastori, allevatori, pescatori artigianali) sanno ripensarsi, rivendicando ruolo, funzione, protagonismo, soggettività.

Si determina, cosi, l’intreccio esplosivo di ragioni tenute fino a quel momento divise; quelle delle aziende agricole e dell’agroalimentare del territorio, quelle dei lavoratori della filiera, quelle dell’ambiente e delle collettività. Altro che “sindrome di NIMBY” (dall’acronimo Not In My Back Yard, lett. “Non nel mio cortile sul retro”), è da qui che nasce la capacità di ripensare il territorio ed è nell’esercizio del diritto alla Sovranità Alimentare che può nascere il futuro.

Mi è capitato, qualche giorno fa di incontrare una di queste comunità in formazione: quella che nella Valle dell’Aso sta resistendo al tentativo di imporre un impianto industriale per la produzione di energia e che, in questo percorso, sta vedendo ritrovarsi insieme agricoltori, cittadini, movimenti, associazioni, sindaci. Soggetti fin’ora divisi che scoprono di declinare, pur con dialetti diversi, la stessa lingua per gli stessi obiettivi.

La Valle dell’Aso (il fiume che per 63 km si snoda dai monti Sibillini all’Adriatico), è una delle vallate che, disponendosi a pettine, compongono la trama orografica delle Marche.

Uno straordinario luogo fin qui generalmente ben conservato dal punto di vista ambientale, ricchissimo di storia fatto di innumerevoli appezzamenti e fondi conosciuto come “Il giardino delle Marche” dove si producono ortaggi, prodotti del bosco, vino, frutta, prodotti della cerealicoltura.

Questo luogo non si è costruito per caso e, pur dentro molte contraddizioni, ha saputo esprimere esperienze avanzatissime di ricerca e messa in campo dell’agricoltura del futuro come quelle che fanno riferimento a Salvatore Ceccarelli (che è di queste parti) con le sue proposte sui miscugli e le popolazioni di grani come risposta alla monocultura tanto cara alla produzione industriale.

In questo luogo vorrebbero costruire un MEGABIODIGESTORE spacciandolo (naturalmente) per una “proposta green” mentre altro non è che l’ennesimo megaimpianto senza alcuna ricaduta reale nel territorio, dal pericoloso impatto ambientale.

Nel bell’incontro tenuto via web il 12 marzo scorso e organizzato da Wigwam, li ho incontrati. Sindaci, ecologisti, tecnici esperti, agricoltori … tutti insieme per dire: “giù le mani dal territorio”. Non solo per dire no; piuttosto per ragionare di un altro modello di gestione del territorio.

Non sono andato all’incontro per portare solidarietà o fare propaganda, quanto per sostenere e condividere le ragioni che stanno opponendo tante realtà in diverse zone d’Italia al nuovo business dei megabiodigestori. La tendenza in atto di impiantarli nel territorio non ha nulla a che vedere con l’agricoltura ma, al contrario, segue la logica della costruzione di megaimpianti industriali che hanno un impatto grande sulla salute e sul territorio e non si legano alle esigenze di una produzione energetica legata ai bisogni ed al ciclo produttivo territoriale.

La gente e i sindaci della Vald’Aso hanno le idee molto chiare: siamo di fronte all’iniziativa di un pugno di grandi imprese che hanno chiaramente l’obiettivo di drenare risorse pubbliche senza delle quali questi impianti (spesso in perdita) non avrebbero ragione di esistere. Impianti che, molti ricerche lo documentano, producono un impatto col territorio che rischia di contribuire ad affossare l’agricoltura.

Bene, avanti così. Altro che sindrome di NIMBY … la gente e i sindaci della Vald’Aso sono sulla strada giusta e noi siamo al loro fianco.

E’ ora, mentre si dispiega la resistenza per rigettare l’aggressione al territorio, che va messo in campo il progetto per salvare l’agricoltura e forgiare la comunità consapevole.

Siamo al lavoro per far conoscere anche questa esperienza e, collegandola con le tante altre che si stanno sviluppando nelle aree rurali e nelle città, aprire la via per un’alleanza fondata sugli interessi comuni al cibo, al territorio e ad un’agricoltura dei beni comuni.