editoriale a cura di Miriam Corongiu*
Se doveste chiedermi cosa faccio nella vita, vi risponderei senza esitare “la contadina”, ma sempre più spesso mi scopro ad usare anche il termine “agricoltrice” con crescente consapevolezza. Non sono termini che uso a caso e sono entrambi sostantivi, per me in progressivo accrescimento, che esprimono non tanto la mia condizione professionale, quanto il mio stesso modo di relazionarmi al mondo. La campagna, oggi, non può più essere oggetto di sfruttamento, né l’agricoltura ridotta ad un severo elenco di entrate e uscite in un bilancio e l’annosa, quanto noiosa, distinzione tra contadinanza e impresa agricola non ha più ragione di esistere.
Se il linguaggio plasma la nostra evoluzione culturale e le parole danno forma al nostro futuro, l’etimologia ci sorregge nell’individuare la nostra azione politica e la riprogrammazione dei nostri territori. Ager, in latino è campo, ma colere (da cui poi agricoltura) non vale solo per “coltivare”: è il verbo che i latini utilizzavano per adorare gli dei rimandandoci al mistero di Gaia e Ctonia, della terra come superficie emersa e delle profondità come luogo ultimo del nostro vivere, così come grembo di ciò che sarà. Sono entrambi dimensioni perdute nel mare magnum di un dibattito solo economico, dimentico della cura indispensabile alla fertilità dei nostri campi come della morte in quanto naturale restituzione.
Applicare concretamente l’agroecologia alla moderna impresa agricola non ha nulla a che vedere con il romanticismo passatista di cui siamo ancora tacciati. Significa al contrario recuperare il significante e il significato del lavoro nella terra per rientrare nel novero delle aziende responsabili che, secondo un modernissimo concetto di economia del bene comune, si mettono al servizio delle comunità producendo valore e ricchezza per un territorio intero così come per il proprio sostentamento.
Lo si fa mettendo in campo soluzioni innovative sul piano tecnico, non solo strettamente tecnologico e alimentando una visione del mondo audace, al passo con la sfida che il tempo dei cambiamenti climatici richiede, rinunciando coraggiosamente a prodotti e servizi che comportano rischi sociali e ambientali.
Lo si fa adoperando la creatività necessaria ad una purpose sempre tarata sul bene comune nell’esplicitazione di ogni segmento organizzativo e lo si fa progettando con attenzione ogni fase del processo produttivo perché è nella progettazione che si determina fino al 80% l’impatto sociale e ambientale di ogni prodotto.
Lo si fa promuovendo e garantendo la dignità e l’equità su tutta la filiera, indagando in profondità su chi sono e cosa fanno i nostri fornitori, partecipando energicamente ad attività di advocacy laddove si rileva sfruttamento o devastazione ambientale e coprogettando, in partnership sincera, filiere rispettose dell’identità di ciascuno e di ciascuna, condividendo le difficoltà, il know how, le competenze, le idee.
Questo non è certo un discorso sui fiori di campo e sulla ruralità come rifugio: è un discorso potentemente economico e aziendale che, però, tiene conto dei fiori e del respiro che tutti cerchiamo nella dimensione rurale, basato sulla passione di chi crede che questa vita abbia un senso da ricercare nel bene di tutti e non nel proprio profitto, ancorato ad una visione politica per la quale conta ogni forma di vita.
Contadina o agricoltrice, dunque, non fa nessuna differenza. Fa differenza la nostra concezione di impresa e di terra: o la lavoriamo per sfruttarla, o la lavoriamo per amarla. Il bene comune può e deve essere il fine, il profitto può e deve essere solo un mezzo. E nell’ottica di un mondo che ha bisogno di sempre più meridione da affamare per portare a compimento la sua missione di morte, in segno di riscatto e ribellione, da nord a sud forse faremmo meglio tutti ad autodefinirci semplicemente terroni.
Vivere di terra, è questo che facciamo.
Figli di Gaia e Ctonia: è questo quello che siamo.
*direttivo Altragricoltura.