Cibo spazzatura? No, grazie!

editoriale del 22/2/21 di Fabio Sebastiani

Dai numeri sul cibo spazzatura arriva il segnale che la transizione ecologica non può essere una presa in giro.

Un importante studio dell’Istituto Neurologico Mediterraneo Neuromed di Pozzilli (Isernia), pubblicato poi sull’American Journal of Clinical Nutrition torna a sottolineare la pericolosità degli alimenti industriali, denominati “ultra-processed food”. Dopo aver monitorato per più di otto anni le abitudini alimentari e le condizioni di salute di 22.475 persone ha concluso che questi alimenti aumentano la mortalità generale del 26%, e quella pe rmalattie cardiovascolari e ischemiche- cerebrovascolari addirittura del 58% e 52%. Spiega la dottoressa Marialaura Bonaccio, ricercatrice del Dipartimento di Epidemiologi e Prevenzione al Neuromed e autore principale del lavoro che si tratta di dati in linea con la letteratura preesistente ma che dovrebbero farci riflettere su come stia regredendo la nostra alimentazione”.
Piatti precotti, patatine, creme spalmabili, snack, barrette, bevande zuccherate: gli Upf non sono solo iper-appetitosi, durevoli ed economici; la vera ragione che ci spinge a comprarli è che sono pronti da consumare. Motivo pe rcui vanno forte nei paesi ad alto reddito e crescono a dismisura nelle economie emergenti. E più ne mangiamo, più ci facciamo del male. A renderli pericolosi non è solo l’elevata densità energetia, tipica dei cibi ultraprocessati ma, come spiega sempre la dottoressa, l’industrializzazione in sé, che altera il contenuto nutrizionale del prodotto e lo fa diventare nocivo. Più della quantità di calorie o della presenza di emulsionanti, edulcoranti, addensanti, coloranti, stabilizzanti e aromi, è la mancanza assoluta di qualità a fare la differenza.
La maggior parte degli UPF sono formulati in modo da dare quasi una dipendenza e rendere difficile scegliere qualcosa di più salutare per impedirne il sovraconsumo. A questo va aggiunta un’altra caratteristica, quella di essere immediatamente consumabili. Viene saltata completamente la fase della preparazione.
Poichè si tratta di alimenti sostanzialmente di sintesi, hanno costi di produzione molto bassi.
I profitti servono quasi interamente per sovvenzionare la pubblicità, il packaging attraente e renderli accessibili soprattutto per i più piccoli (sorprese, concorsi a premi, collezione di punti etc).
L’ UPF è inoltre ready to use, ovvero pronto ad essere consumato: talvolta è sufficiente scaldarlo, alter volte basta scartarlo. In questo modo si mangia per strada, al lavoro, davanti uno schermo, in macchina o al telefono. E questo, stride decisamente con il marketing che propone un modello sociale per il quale alcuni cibi uniscono la famiglia e favoriscono la socialità.

Questo mercato ha una struttura oligopolistica (cioè di poche imprese che producono un bene omogeneo, definendo un’offerta falsata tra venditore e acquirente). In questo modo si sostengono tra di esse e costruiscono abitudini alimentari in maniera ubiquitaria: ovvero insegnano a smangiucchiare (in inglese snack, rende meglio l’idea).
Oltre ad essere un problema per la salute e per il sistema sociale, il cibo processato ha un impatto economico.
Le multinazionali del UPF, guadagnano molti profitti grazie al costo molto basso della materia prima. Reinvestono dunque acquistando i mercati locali di cibo minimamente-processato. Per competere con queste, i mercati regionali producono essi stessi del cibo UPF . Così le aziende diventano fattrici monocoltura di materie prime per confenzionare UPF, impedendo lo sviluppo di un mercato alimentare che serva per nutrire le persone con cibo vero.
Questa realtà è maggiormente presente nei paesi in via di sviluppo permettendo la diffusione di un’abitudine non salutare tra la povera gente.
Questi dati sono sono interpretabili. Questi dati forniscono indicazioni molto precise. Quando si parla di prevenzione della salute, quindi, non si possono ignorare. E invece cosa fanno le autorità sanitarie? Si limitano a “consigliare” e si astengono dall’intervenire in modo chiaro e netto. Quello che sta avvenendo negli Stati uniti è paradossale. Dopo che il Dipartimento dell’Agricoltura e quello della salute e dei servizi umani avevano rivisto le linee guida sull’alimentazione tagliando i contenuti di zuccheri negli alimenti – basti pensare che in Usa il consumo medio è di 17 cucchiaini al giorno contro i 6 consigliati dall’Oms, sono intervenute le greandi multinazionali bloccando l’ulteriore tagliio.

Quando si parla di Transizione ecologica, quindi, non si può avere un approccio settoriale. Questi dati sono un’ulteriore prova che o si torna a parlare seriamente di cosa è un cibo sano oppure continueremo ad essere incastrati in una catena in cui i costi sanitari di un sistema alimentare patogeno continueranno ad essere girati sulla comunità. Uccidersi lentamente mangiando patatine va bene. In fondo è una scelta. Ma uccidersi pagando i propri assassini sembra davvero un paradosso intollerabile. Chi sta pensando alla Transizione ecologica, quindi, non può lasciare indietro l’individuazione di un punto di equilibrio tra ambiente, agricoltura e sanità. Si rischia di fare dell’ecologia una semplice etichetta che da una parte produce meno combustibili fossili ma dall’altra non tiene conto di quanto siano velenosi gli alimenti prodotti usando quella stesa energia.