Ciascuno cresce solo se sognato. Lettera aperta al Comune di Roma ed alla politica italiana

Ciascuno cresce solo se sognato (Danilo Dolci)
e nel mio sogno ci sono uomini e donne che vivono in pace al lavoro nei campi

lettera aperta alla politica italiana 64 anni dopo
di Gianni Fabbris

Il 2 febbraio del 1956 Danilo Dolci veniva arrestato mentre guidava un gruppo di braccianti a lavorare nella Trazzera vecchia, una strada nei pressi di Partinico abbandonata all’incuria.
Chi era Danilo Dolci? Un sociologo, pedagogo e poeta di origine triestina che scelse di vivere in un poverissimo villaggio di agricoltori e pescatori a Trappeto in Sicilia dove condivise con loro le battaglie contro la miseria e l’emarginazione.
Era un uomo del fare come dimostrò presto con uno sciopero della fame fatto nella casa di un bambino morto di fame per denunciare la povertà di quella gente.
Qualche anno dopo coinvolse tante e tanti in uno sciopero della fame collettivo sulla spiaggia per protestare contro la pesca di frodo dei grandi pescherecci che saccheggiavano risorse ai piccoli pescatori e devastavano l’ambiente.
Subì il primo processo accusato di un reato che oggi appare “paradossale e un pò ridicolo” come appare lontana, grossolana, ingenua e crudele l’Italia di settanta anni fa: il digiuno collettivo secondo i suoi accusatori era illegale e contrario all’ordine pubblico.

Assolto, continuò a “fare” e recuperò, così, una forma di mobilitazione sociale che il movimento sindacale aveva già messo in campo in talune occasioni, fino a farla diventare con il metodo della pedagogia popolare uno strumento potentissimo per formare le coscienze, comunicare e far esprimere la protesta e le richieste delle sue comunità: lo sciopero alla rovescia.

Molto schematicamente si può raccontare cosi questa forma di lotta civile e democratica: “se gli operai scioperano astenendosi dal lavoro, allora i disoccupati possono farlo lavorando”.

Uno sciopero alla rovescia: esattamente quello che nella giornata di oggi 17 luglio 2020 le realtà dei contadini, degli agricoltori e dei loro alleati hanno avuto nella intenzione di fare per protestare contro un uso del patrimonio di terre pubbliche sbagliato e per chiedere che sia messo nella disponibilità dei giovani disoccupati per la realizzazione di progetti socialmente condivisi con le nuove domande di un cibo giusto che salgono dalla società.

Danilo Dolci il 2 febbraio del 56, mentre guidava uno sciopero alla rovescia in cui in tante e tanti erano al lavoro per ripristinare una strada rurale abbandonata dal comune, fu arrestato.
Al commissario di polizia che era intervenuto per interrompere quello “Sciopero alla rovescia” e che gli contestava l’infrazione delle leggi e dell’ordine pubblico, Danilo Dolci rispose che il lavoro non è solo un diritto, ma per l’articolo 4 della Costituzione un dovere e, dunque, quale legge è superiore alla costituzione?

Fu accusato in un tribunale di essere un pericoloso “sovversivo” retaggio del codice fascista in nome di leggi che di li a poco sarebbero state abolite. A sostegno di Danilo Dolci, grande figura di educatore della nonviolenza e militante sindacale, scese in campo una grande iniziativa nazionale e internazionale di cittadini, intellettuali, uomini e donne delle campagne e delle città e si aprì un dibattito ricchissimo che (ancora una volta muovendo le coscienze dalle aree rurali di questo Paese) fece avanzare la consapevolezza civile e la democrazia. Il grande giurista Pietro Calamandrei, nella sua arringa a difesa di Danilo Dolci, in risposta al PM che sosteneva che le leggi “vanno applicate e non possono essere interpretate secondo le correnti di pensiero” sostenne: “… cosa sono le leggi se non esse stesse delle correnti di pensiero? Se non fossero questo non sarebbero che carta morta….. E invece le leggi sono vive perché dentro queste formule bisogna far circolare il pensiero del nostro tempo, lasciarci entrare l’aria che respiriamo, metterci dentro i nostri propositi, le nostre speranze, il nostro sangue, il nostro pianto. Altrimenti, le leggi non restano che formule vuote, pregevoli giochi da legulei; affinché diventino sante esse vanno riempite con la nostra volontà”

Si legge ancora nell’arringa di Calamandrei: “Per renderci conto della eccezionalità e assurdità di questo processo, bisogna cercare di immaginare come questa vicenda apparirà, di qui a 50 o a 100 anni, agli occhi di uno studioso di storia giudiziaria al quale possa per avventura venire in mente di ricercare nella polvere degli archivi gli incartamenti di questo processo, ……….. scorrerà attentamente gli incartamenti per ricercare le prove di questa “spiccata capacità a delinquere ” che l’ordinanza istruttoria con tanta durezza preannuncia. E, senza perdersi in sottili acrobazie di dialettica giuridica, si domanderà umanamente: che cosa avevano fatto di male questi imputati? In che modo avevano offeso il diritto altrui; in che senso avevano offeso la solidarietà sociale e mancato al dovere civico di altruismo?”

Quasi settanta anni dopo io, oggi, lo chiedo all’Assessore del Comune di Roma che (sembra) abbia sentito il dovere di prendere carta e penna e scrivere al Questore di Roma per chiedere che venisse negata l’autorizzazione (peraltro già formalizzata) allo sciopero alla rovescia che le realtà sociali delle cooperative romane (e noi con loro) hanno indetto nella tenuta di Castel di Guido, proprietà pubblica in sostanziale abbandono.

Quelle realtà sociali di agricoltori chiedono da tempo che quella proprietà rimanga pubblica e non venga smembrata e privatizzata, che venga assegnata per la gestione a giovani disoccupati che avanzino proposte di uso agroecologico e produttivo, che diventi occasione di benessere per chi ci lavora e per i cittadini che ne avrebbero un territorio tutelato, con una funzione sociale condivisa e sottratta alla speculazione e un cibo giusto e sicuro legato al territorio.

Oggi, con lo sciopero alla rovescia, in tanti sarebbero stati in quell’azienda che in realtà è diventato un buco nero per le casse pubbliche nonostante sia in sostanziale abbandono e la avrebbero “pulita, diserbata, resa fruibile” … come potrebbe essere se fosse riconsegnata alla responsabilità di quei giovani senza lavoro che potrebbero in realtà impegnare il proprio tempo, le proprie energie, le proprie speranze, il proprio sangue e il proprio pianto.

La Questura di Roma ha revocato l’autorizzazione allo sciopero alla rovescia di oggi. Se è vero, se quell’assessore di un comune ha scritto la lettera in cui chiede di impedire la manifestazione, la politica dimostrerebbe ancora una volta quanto sia tornata (settanta anni dopo) lontana dai bisogni e dalle aspettative della società, dai suoi progetti, dalle sue forze migliori e, rinchiudendosi nello stesso buio stanzino in cui sedeva il leguleio PM accusatore di Danilo Dolci, parla a se stessa ormai incapace di interpretare le istanze di cambiamento.

E, invece, oggi, 70 anni dopo, il Paese è di nuovo di fronte ad un bivio. Di fronte alla crisi aperta dall’impatto della pandemia del Covid19, dobbiamo scegliere se tornare al modello della crisi fondato su un agroalimentare come business speculativo sul mercato che considera la terra e il cibo come merce senza valore sociale o se, al contrario, cambiare pagina.  Mentre il “Made in Italy” diventa sempre più un cartello di marchi speculativi utili ai nuovi padroni delle filiere del cibo industriale, le nostre campagne si svuotano, le aziende agricole continuano ad essere in crisi, avanza lo svuotamento dei diritti del lavoro e l’insicurezza alimentare, aumenta la disoccupazione. Di fronte a questa consapevolezza crescente fra i cittadini serve un salto nella capacità di considerare la funzione sociale dell’agricoltura, del cibo buono e giusto come diritto, del metodo agroecologico nell’uso e gestione del territorio e dei beni comuni. Serve una nuova stagione di scelte che favoriscano e sostengano questa consapevolezza e domanda crescente di cambiamento. E serve farlo in sintonia e coinvolgendo le forze sane del Paese.

A quell’assessore chiediamo di smentire la lettera e di accettare il confronto come era stato proposto essendo invitato in una pubblica assemblea a Castel di Guido ed alla politica tutta chiediamo di pronunciare le parole nuove che attendiamo capaci di aprire il confronto sull’uso delle terre pubbliche e di dismettere il linguaggio sguaiato e sgrammaticato della repressione e dei legulei: le leggi vanno cambiate quando non funzionano ed oggi, in realtà, torna ad essere il tempo delle riforme dell’agroalimentare italiano e non della chiusura.

Fatelo e fatelo presto, apriamo il confronto perché l’autunno è vicino e noi non ci fermiamo.