editoriale del 21.12.20 di Fabio Sebastiani
A fine anno per effetto del Covid avremo perso l’11 per cento del reddito. L’anno prossimo con molta probabilità ci sarà un rimbalzo, ma la Banca d’Italia prevede che il ritorno alla normalità non ci sarà prima dei tre anni.
Tradotto in numeri tutto questo vuol dire un aumento della disoccupazione per il prossimo anno dal 10 al 12 per cento. Non solo: aumenterà visibilmente la polarizzazione del reddito perché chi starà sopra la soglia di sussistenza potrà lucrare sulla povertà degli altri.
Questo vuol dire che aumenterà il potere di ricatto sulla forza lavoro. Paradossalmente, l’unico fattore di controtendenza, sempre che la struttura produttiva rimarrà la stessa (ma non sarà così), sarà il calo demografico.
Il censimento Istat 2019 ci presenta scenari davvero inediti. Innanzitutto perché il rischio è di scendere sotto la soglia dei 400mila nati annui; nel rapporto spiccano alcune tendenze: il costante calo della popolazione di cittadinanza italiana (dal 2011 meno 800mila nuove unità, nonostante le ac-quisizioni di nuova cittadinanza), è sempre meno compensato dall’aumento dei cittadini stranieri (dal 2001 un milione in più).
Entro il 2032 il numero di persone di età compresa tra i 15 e i 64 anni diminuirà del 6%.
La popolazione residente evolve in maniera diversa anzitutto per area geografica: in calo nel Mezzogiorno e nelle isole, e in aumento al centro nord. Poi, più del 50% è concentrato in 5 regioni, con Roma che è il più grande comune d’Italia, la popolazione diminuisce nei piccoli comuni (con meno di 5mila abitanti) di ben 520mila persone, mentre aumenta nelle altre realtà soprattutto nei comuni on oltre i 50mila abitanti.
L’Italia è un paese che continua a invecchiare e questo ha conseguenze sociali, economiche e culturali evidenti; l’età media rispetto al 2011 passa da 43 a 45 anni. Questo, nonostante l’apporto positivo della popolazione straniera che rallenta il meccanismo, l’età media degli stranieri è infatti più bassa (meno 11 anni nel 2019).
Di particolare rilievo sono i dati relativi ai titoli di studio: i laureati rappresentano il 13,9% della popolazione, mentre il 35,6% ha un diploma di secondaria superiore. Questi livelli di istruzione non raggiungono ancora, nel 2019, il 50% della popolazione. Il 29,5% della popolazione ha la licenza media e ancora, nel 2019, il 16% ha frequentato unicamente la scuola elementare. A questi vanno aggiunti il 4,5% di analfabeti o comunque senza alcun titolo di studio. Per quanto riguarda le varie categorie di livello di istruzione in rapporto alla distribuzione territoriale, la maggior parte dei laureati vive in territori con abitanti superiori ai 250mila unità.
Infine, la drammatica situazione dell’occupazione. In otto anni gli occupati crescono appena dello 0,6%, aumentano i disoccupati e non si riassorbe e non minimamente l’anomalia italiana degli inattivi. Le regioni con occupati sopra il 50% sono quattro e tutte al Nord, mentre le otto regioni con il dato più basso sono tutte nel Mezzogiorno. Cresce, ma troppo poco, la presenza delle donne nel mercato del lavoro, dal 2001 più 410mila, non superando però il 42 per cento del totale degli occupati.
Sono tutti temi che non possono essere lasciati alla politica. Siamo a una svolta epocale che il mondo politico e, di riflesso, quello istituzionale, stanno affrontando con la solita rissosità e superficialità. Non solo, è uno di quei momenti della storia in cui almeno avrebbe avuto un certo effetto positivo una sorta di “contiguità” tra società civile e società politica. Una cerniera, insomma, che in qualche modo si era intravista nel Movimento Cinque Stelle, che invece ha fallito proprio su questo punto. Il futuro, se osservato da questo punto di vista, appare doppiamente oscuro. Non possiamo aspettare che la politica si svegli. A svegliarsi devono essere i cittadini.