È possibile concepire (e mettere in pratica) l’agricoltura all’interno del tessuto urbano di città come Roma o Catania, trasformandola in uno strumento di aggregazione e ricomposizione sociale, riuscendo al tempo stesso a rispettare la certificazione biologica dei prodotti?
Osservando da vicino la pratica degli orti urbani sembrerebbe proprio di sì.
Secondo Salvatore Cacciola, presidente della Rete delle Fattorie Sociali Sicilia, i cosiddetti Orti Sociali nati all’interno di aziende agricole satellitari all’area metropolitana di Catania, rispondono esattamente al bisogno di «fare agricoltura biologica, riuscendo ad attuare contemporaneamente dei processi di inclusione sociale». Il fatto che questi Orti Sociali vengano realizzati all’interno di una città, inoltre, non dovrebbe affatto stupire.
Cacciola impiega una interessante formula: “agricoltura periurbana”. Attraverso la sinergia tra terreno coltivato e ambiente urbano la Rete si pone esplicitamente l’obiettivo di rispondere ai bisogni di cittadini metropolitani che «vogliono riconciliarsi con la natura e mangiare buon cibo». Dove risiede, però, l’incommensurabile valore sociale di questa realtà? L’attività, ormai decennale, di questa esperienza associativa si è fortemente caratterizzata nell’ambito dell’aggregazione sociale, fornendo dei terreni confiscati alla mafia – grazie anche alla collaborazione con svariate aziende agricole improntate sul biologico – a ragazze e ragazzi autistici.
«Sposo in pieno l’idea che l’agricoltura biologica debba essere un veicolo, se non uno degli strumenti principali, per poter educare gli individui più fragili della nostra società, ai cui margini sono relegati». Così Mauro Giardini della Cooperativa Sociale “Selva Grande”, attiva sul territorio di Roma, il quale sottolinea l’importanza del concepire l’orto urbano come un luogo che permette non solo di consumare cibo di qualità, ma che sappia veicolare un messaggio di comunità, di condivisione e di partecipazione. Messaggio fortemente impregnato di valore pedagogico.
Ed è esattamente su queste tematiche che la Cooperativa ha voluto improntare il progetto di orto urbano del Nomentano-Tirburtino, sorto su un terreno in disuso, dove doveva sorgere chissà quale edificio che va ad aggiungersi al triste mosaico degli “eterni incompiuti”, provocati dalla speculazione edilizia. Sono ormai due anni che, in collaborazione con Leroy Merlin (principale promotore dell’iniziativa), questa esperienza di orti sociali è gestita direttamente da ben 22 famiglie, le quali in piena autonomia e supervisionate di quando in quando dai membri della Cooperativa, sono riuscite a sviluppare la socialità necessaria nell’approccio all’agricoltura biologica. È così che si è costituito un importante centro di aggregazione sociale, completamente inedito per il quartiere, capace non solo di rappresentare un’esperienza esemplare nella propaganda di un consumo alimentare responsabile, ma – ha ricordato Mauro Giardini – «di fornire concretamente più sicurezza e stabilità alle aree delle periferie».
Vista la lunga tradizione, ormai decennale, degli orti urbani, sarebbe importante riuscire a comprenderne la portata a livello nazionale attraverso un censimento, non solo nell’ottica di una mappatura descrittiva, ma per stimolare una proliferazione su scala nazionale di queste pratiche virtuose, le quali se lavorassero più assiduamente con aziende agricole, i mercati contadini e i gruppi di acquisto equo e solidale, potrebbero diventare veri e propri laboratori sociali qualificati.
Valerio Sebastiani