Quando i numeri ci indicano la via per cambiare l’agricoltura europea.

Editoriale di Gianni Fabbris*
11 maggio 2021

Eurostat ha pubblicato un aggiornamento dei dati con cui monitora l’andamento dell’agricoltura europea. Dalla loro lettura emergono elementi che vanno analizzati con più attenzione ma che, fin da subito, si mostrano di estremo interesse. Vediamo i più importanti e proviamo a contestualizzarli per una lettura critica che, potrebbe svelare qualche sorpresa.

Il valore totale della produzione agricola nel 2020 è stimato a 411,8 miliardi di euro, di cui circa la metà (52,8%) proviene da colture (di cui il 14,0% da ortaggi e piante orticole e l’11,2% da cereali) e poco meno di due quinti (38,6%) da animali e prodotti animali (di cui il 13,1% da latte e il 9,6% da suini). Il resto deriva da servizi agricoli e attività non agricole inseparabili.

Il reddito agricolo per unità di lavoro annuale (ULA) nell’UE è stato stimato inferiore dell’1,5% nel 2020 rispetto al 2019. Questo leggero calo a livello dell’UE include redditi agricoli inferiori in cinque dei sette maggiori produttori agricoli: Italia (-4,9 %), Paesi Bassi (-5,1%), Francia (-7,6%), Romania (-13,8%) e Germania (-14,6%, che rappresenta il tasso di diminuzione più netto tra gli Stati membri).

La maggior parte degli Stati membri, tuttavia, ha registrato aumenti di questo indice nel 2020. I maggiori rialzi sono stati in Lituania (+30,2%), Croazia (+13,2%), Spagna (+13,0%) e Ungheria (+11,6%).

Questi dati sui redditi agricoli dell’ultimo anno non possono che essere letti nel rapporto più generale con l’intero ciclo dell’agroalimentare: un ciclo che ha visto la crescita dei consumi alimentari, l’aumento dei prezzi delle commodities (mai cosi alti dal 2014) e il forte guadagno di utili da parte della distribuzione (con particolare riferimento alla GdO).

Anche l’occupazione nelle campagne europee (6,2 milioni di addetti in equivalente full time) ha accusato nel 2020 un’ulteriore battuta d’arresto, in linea con una tendenza negativa di lungo periodo, ma perdendo lo scorso anno più della media storica, -2,8% rispetto al 2019.

Appare evidente un primo problema: si allarga la forbice fra la capacità di accumulare utili da parte della distribuzione (in particolare della GdO) e le perdite del settore produttivo europeo. Il processo che ha visto in questi decenni spostare il valore aggiunto dalla produzione europea verso la gdo non solo continua ma si consolida e si rafforza. Il furto di ricchezza in danno del lavoro e dei redditi delle imprese continua consacrando una delle tendenze sempre più evidenti in Europa: quella della marginalizzazione di alcune parti strategiche del suo comparto produttivo alimentare (per delocalizzarle ove costa meno coltivale e allevare) a favore della speculazione finanziaria e commerciale.

L’agricoltura italiana è una di quelle economie agrarie che maggiormente ha subito l’impatto con questa dinamica ed ha lasciato per la strada una lunga scia di disastri: in venti anni un milione di aziende agricole chiuse, impoverimento nelle aree rurali delle famiglie, perdita di diritti del lavoro e dei cittadini, desertificazione sociale delle aree rurali. Nel dato del -4,1% italiano si mostra tutta l’evidenza di una crisi che continua e lascia gran parte degli agricoltori sempre più dipendenti dalle politiche di sostegno europee per garantire il reddito minimo che ne consente la sopravvivenza.

Da qui, le prime indicazioni per orientare la via da seguire: l’Europa è chiamata a decidere se e come vuole recuperare la funzione produttiva della propria agricoltura cambiando le scelte che la hanno portata a sacrificarla consegnando le campagne ad un generale impoverimento. Servono, dunque, politiche attive della PAC (che può avere una funzione decisiva nel medio/corto periodo per sostenere i redditi di aziende e lavoratori a condizione che recuperi la sua funzione originaria di grande sistema di wellfare e cessi l’indecoroso saccheggio delle lobbies) per rimontare la gravissima condizione delle famiglie rurali. E serve, anche, recuperare il ruolo e la funzione dell’impresa e del lavoro con investimenti e scelte orientati a riqualificare la funzione della produzione del cibo che arriva sulle mense dei cittadini europei rendendola capace di rendere gli agricoltori pienamente responsabili nell’interpretare le nuove domande di giustizia ambientale e sociale che sale dai cittadini.

Serve, insomma quella svolta agroecologica che, coniugando insieme, la responsabilità e il diritto a produrre, possa garantire il recupero di reddito e valore aggiunto fin qui espropriato dalla speculazione finanziaria e commerciale.

Ma, e questo è il secondo aspetto che va considerato, inaspettatamente la dinamica dei redditi agricoli in Europa mostra una forte differenziazione fra Paesi diversi. In un quadro di generale contrazione della media (-1,5 %), alcuni Paesi (la maggior parte) aumentano i redditi e altri li diminuiscono.

La dinamica andrà letta con attenzione ma un primo dato salta agli occhi guardando i numeri: la peggiore performance la svelano i Paesi con le “agricolture continentali”. I Paesi Bassi (-5,1%), la Francia (-7,6%), la Romania (-13,8%) e la Germania addirittura con il -14,6%.

Al contrario le economie agrarie produttive di modello Mediterraneo segnano dinamiche differenti e sembrano contraddire il dato. Fra tutti, i numeri della Spagna con il +13% ma, in questa logica di lettura, persino il valore italiano (con il suo -4,1%), essendo quello fra i grandi Paesi Produttori quello che subisce meno la tendenza negativa, appare di controdendenza.

Non mi è chiaro, non ancora almeno, perché; forse, almeno in parte, contribuiscono due fattori a comporre questo dato: il fatto che, almeno per l’Italia, il “fondo del barile” è stato raggiunto e c’è ben poco da raschiare ancora e la circostanza che la struttura stessa della diversificazione agricola e il legame col territorio di almeno una parte di essa possano avere incontrato più facilmente la domanda di cibo delle comunità e delle famiglie “confinate”.

Se cosi fosse (e alcuni chiari segnali ci appaiono nella ripresa e nel consolidamento di dinamiche commerciali “di prossimità”), allora sarebbe chiara l’indicazione di come il mantenimento di quel tessuto di diversità produttiva tipico della produzione mediterranea (ortofrutta, olio, vino, piccolo allevamento, ecc.) non omologabile al sistema funzionale alla gdo e/o come “reparto all’aperto della produzione industriale” può essere una grande opportunità per la sua maggiore capacità di diversificazione, elasticità e adattamento.

Una maggiore resilienza dell’agricoltura della diversificazione tipica della storia del mediterraneo e del nostro Paese in particolare che, superando la marginalità e dalla nicchia in cui è stata mantenuta l’Agricoltura Mediterranea Europea, potrebbe offrirsi come terreno su cui ricostruire la funzione dell’agricoltura produttiva.

Insomma dentro i numeri di una diversa dinamica della capacità di fare o perdere reddito dei sistemi agricoli dei diversi paesi si possono leggere in filigrana indicazioni su come uscire dalla crisi ma, perché questo accada, serve fare scelte chiare e decisive proprio ora.

Non è detto che questo accada, anzi, il rischio grande è che il dibattito in corso eviti di affrontare ancora una volta il nodo strategico che riguarda la funzione e il ruolo di come, chi e per chi produce il cibo in Europa per lasciare tutto come il mercato vuole che sia, grazie anche la massa di fondi messi a disposizione dei piani di investimento pubblici che diventeranno saccheggio delle lobbies speculative.

La scelta se avremo la società della Sovranità Alimentare fondata sull’agroecologia che redistribuisce valore e benessere o quella del mercato speculativo che comprime i diritti è una scelta politica e sociale. Non abbiamo molto tempo: l’esito di queste scelte sarà descritto dai numeri dei prossimi rilevamenti Eurostat e dipenderà, anche, da quanto sapremo incidere nel dibattito in corso sulla riforma della PAC e sugli orientamenti strategici dell’Europa