A volte ritornano… i contadini che sperano

editoriale del 27.04.2021 di Nicola Vinciguerra*
Questo il podcast del video andato in onda alle ore 7.33
sotto il video, il testo scritto

Rimasi colpito da una pubblicità che vidi un po’ di tempo fa in televisione, uno spot di 30 secondi
con riprese aeree di enormi campi lavorati o irrigati da enormi macchinari secondo precise linee
geometriche, una ripresa frontale di un giovane agricoltore che sorride ma non è impegnato in alcun
lavoro né ha in mano alcun attrezzo agricolo, e una voce maschile che annuncia in modo amorevole
ma fermo la realizzazione di una nuova e luminosa era di progresso per l’agricoltura: “Il contadino
curvo tra terra e cielo ha alzato la schiena, è diventato agricoltore. Ogni zolla gli appartiene, sa
quando ha fame, sete, sonno. Le sue mani la accudiscono con nuove carezze. Il tesoro che
custodisce con la memoria del passato e la scienza del futuro è il suo campo. E su quel campo non
c’è più un contadino che spera. C’è un agricoltore che sa, che sa cosa ti offre. Le Stagioni d’Italia,
dalla grande agricoltura italiana”.
Perché questo confronto e questo giudizio tra “contadino” e “agricoltore”, chiaramente favorevole
per il secondo? Se il “brand” è un segno distintivo sviluppato da una azienda venditrice per
identificare la propria offerta e differenziarla da quella dei concorrenti, chi sono questi concorrenti
dai quali nello spot ci si differenzia? Sono dei contadini? Ad ogni modo, ciò che più ritengo
interessante non è l’azienda per cui è stato realizzato questo spot. L’azienda specifica può essere
messa da parte, il testo dello spot invece no perché è un’ottima sintesi, apparentemente più benevola
e con qualche parola diversa, di un discorso sui contadini con una lunga storia, con ciò che afferma
esplicitamente e con ciò che non dice ma presuppone come assunto (almeno a partire dalla mia
piccola finestra sul mondo).
Questo discorso dice che un contadino non può che essere curvo ed avere la schiena abbassata e che
per liberarsi da questa condizione non può che diventare altro da sé. Un contadino intrinsecamente
non può alzare la schiena rimanendo un contadino. La schiena abbassata è un destino ineluttabile
per un contadino, una condizione naturale indipendente da fattori storici e sociali. Un contadino non
può che essere un ignorante in balia degli eventi e non può quindi fare altro che sperare che “vada
bene”, affidandosi a pratiche superstiziose, a pratiche magiche, ai santi etc o a tutto questo insieme
ma non può essere portatore di un “sapere” degno di questo nome. I contadini appartengono ad un
passato buio e brutto che doveva essere superato, ed è stato finalmente superato, per il bene dei
contadini stessi e per il bene di chi fruisce dei prodotti agricoli, liberandosi dei contadini stessi e del
loro modo di vivere.
Dobbiamo essere dei folli dunque noi che pretendiamo praticare l’agricoltura contadina. Forse, ma
dei folli che non accettano più un discorso che parla dei contadini ma è articolato e pronunciato da
chi non ha mai ascoltato i contadini né parlato con loro, tanto forte era la convinzione, ed è ancora
per molti, che dai contadini non ci sia nulla da imparare. Dei folli che rivendicano con orgoglio le
lotte contadine del passato e del presente. E pure le sconfitte. Dei folli consapevoli di non essere
padroni della terra, neanche di una sola zolla di terra, ma di essere parte di essa. Noi conosciamo la
differenza tra la cura della terra e il controllo e il dominio sulla terra, tra le carezze alla terra e gli
schiaffoni alla terra. Sappiamo che la terra è un organismo vivente con il quale relazionarsi con
rispetto e non una macchina da comandare con dei pulsanti, pompare per farla andare più veloce, su
cui fare un po’ di manutenzione, qualche modifica “sostenibile” e infine da rottamare per passare ad
usarne un’altra. Vogliamo essere in sintonia con la terra, adattandoci creativamente ad essa, e non
stare sopra di essa, non costringere la terra ad adattarsi ad un totalitarismo tecnologico che pretende
decidere quando, quanto e come deve avere fame, sete e sonno per incrementare i profitti anziché la
biodiversità. A partire da questa sintonia e da questo adattamento creativo recuperiamo i saperi
locali e specifici contadini (quelli che l’agricoltura industriale ha squalificato e coperto con la sua
pretesa di essere “sapere” universale e applicabile ovunque a prescindere) e ne costruiamo di nuovi
combinando le pratiche tradizionali con le moderne conoscenze scientifiche. Noi dialoghiamo con
la terra tramite il nostro corpo e non la percepiamo come un modo come un altro di fare soldi, siamo
legati alla terra e la amiamo, per questo non impieghiamo pratiche che possano minacciarla e
cerchiamo di non essere dipendenti da fattori produttivi esterni alla terra in cui viviamo. Siamo
lillipuziani eppure continuiamo a sfamare il mondo nonostante quanto venga sbandierato dai giganti
dell’agro-industria. Se ancora qualcuno crede che per qualificare e legittimare l’agricoltura
industriale si debba squalificare e delegittimare l’agricoltura contadina, forse siamo dei folli
sovversivi che fanno paura perché hanno ritrovato la speranza, quella vera, che fu rubata ai nostri
padri, madri, nonni e nonne contadini e contadine, tanto da indurli a lasciare la terra o ad assimilarsi
a quello che non erano. Noi l’immaginario lo abbiamo decolonizzato, ci guardiamo con i nostri
occhi e ci prendiamo la parola. Non siamo noi i disperati questa volta ma disperato è un apparato
che ha bisogno di arrampicarsi sugli specchi. Non siamo noi a non avere futuro questa volta. Anche
se nessuno ha detto che sarà facile. La nostra esistenza è la nostra resistenza.


*Nicola Vinciguerra, contadino nelle Marche