Per cosa ci mettiamo in marcia

editoriale del 9 aprile 2021 di Mirko Rauso*

Quando pensiamo ad una protesta, non possiamo che immaginare un popolo in marcia. Piedi in movimento
e sguardo ben diritto, guadando in avanti e leggermente in alto.

La forza primordiale di questa rappresentazione sembra stridere con l’immagine stereotipata del mondo rurale, eternamente rassegnato e sottomesso.

Eppure la Storia ci insegna che non è così. Mentre scrivo queste righe, i contadini indiani stanno portando avanti la loro lotta contro l’agroindustria. In Chiapas le comunità rurali indigene continuano a difendere la rivoluzione che da trent’anni resiste alla globalizzazione. In Brasile i Sem Terra continuano a combattere contro i ceti latifondisti difesi dal governo Bolsonaro.
Si dirà, non senza sbagliare, che tutto ciò avviene nel cosiddetto “Terzo Mondo”, un pianeta lontano dall’opulenza occidentale. Eppure qualcosa esiste, anche in Europa e in Italia ci sono dei piedi che sono pronti a muoversi. A mettersi in marcia. In verità, quei piedi si sono mossi, venti anni fa, a Genova.

Noi che c’eravamo, possiamo dire a testa alta che avevamo ragione, che le nostre ragioni erano e rimangono
sacrosante. Una magra consolazione, vero, ma pur sempre un punto da cui ripartire.

Col senno di poi, passando dall’entusiasmo alla delusione, potremmo stilare un bilancio dicendoci cosa sia andato storto.

Certo nessuno si aspettava che la macchina repressiva messa in moto dallo Repubblica Italiana potesse
sospendere per una settimana lo Stato di diritto. Tuttavia bisogna riconoscere che qualcosa mancava.
C’era sì, una incredibile soggettività politica, o meglio un insieme coeso di soggettività.

Ma a guardarla con lalente della storia, si doveva costruire un progetto chiaro, definito.
Se oggi dobbiamo metterci in marcia dobbiamo allora costruire una proposta, una bandiera non solo simbolica attorno cui raggrupparci e che guidi la nostra marcia e la nostra lotta.

Guardiamo ai veri e concreti problemi del presente, cercando di ordinarli senza fare gerarchie intestine. La
risposta sarà una, ed univoca: la Riforma Agraria.
Collasso ecologico, collasso economico, collasso sociale. A tutto ciò deve rispondere una idea di cambiamento totale nel rapporto che le società hanno con le risorse e che passi attraverso il modo in cui l’umanità trasforma la realtà e la natura.

La Riforma Agraria è un argomento spesso tabù, per motivi ben conosciuti, E se negli anni ’50 del secolo passato i grandi proprietari terrieri temevano che fosse accolta la richiesta di terra dei braccianti; oggi le multinazionali dell’agroindustria tremano alla sola idea di perdere il totale controllo della commercializzazione dei beni di consumo primario.

Eppure questo è un passaggio necessario se si vuole, realmente, uscire dalla impasse, di cui la pandemia non ha fatto altro che manifestarne il volto più tragico.
Sbaglieremmo, però, nel pensare che la Riforma Agraria debba essere solo una vertenza di chi lavora nel settore agricolo, tanto come non deve essere una pura istanza ecologica che non guardi ai risvolti economici.

La riforma Agraria che vogliamo deve essere un’Alleanza, un organismo coeso che riporti al centro dell’interesse politico una visione armonica del rapporto tra l’umanità e la natura, in una dimensione ecocentrica, comprendendo che non solo essa è giusta. Deve diventare anche conveniente.

Se saremo in grado di guardare avanti, con lo sguardo un po’ alzato i nostri piedi possono rimettersi in marcia e, forse…sicuramente, ci accorgeremo di essere molti e forti, più di quanto pensassimo.