Una lettera dall’India. Ripartiamo dalla libertà dei semi.

Durante il Seminario per istituire il Forum del Grano, é stato dato
conto di una lettera dall’India di Ruchi Shroff, direttice della Fondazione
Navdanja International. Katya Madio ne ha dato lettura nello spazio
dell’Editoriale letto il Primo Marzo 2021

Grazie per averci invitato pensando che Navdanya International potesse contribuire positivamente a questo importantissimo Forum. Grazie anche per la solidarietà espressa nei confronti dei contadini indiani e della loro battaglia. Un contadino su quattro al mondo è un contadino indiano. La loro battaglia è una battaglia per tutti i contadini del mondo.

E’ proprio il nostro mondo ad essere sotto attacco. Nel corso di un secolo abbiamo assistito ad una vera e propria colonizzazione della terra, dell’agricoltura e della nostra salute. I sistemi da cui tutti dipendiamo si sono sempre più industrializzati e globalizzati. Il degrado di ogni dimensione della catena alimentare, dal suolo, all’acqua, alle sementi, alla produzione, alla lavorazione e distribuzione, comporta, soprattutto, l’abbandono delle diete tradizionali – naturali e biologiche, che hanno rappresentato la base della salute umana in tutto il mondo nel corso della storia umana. Sotto la pressione degli attuali sistemi alimentari industriali e agricoli, i nostri cibi tradizionali stanno diventando “cibi dimenticati”, ma rappresentano ancora l’espressione di una catena del valore che lavora in armonia con la natura e per la salute e la dignità delle persone. Essi provengono dalle varietà dei nostri cereali indigeni e dei nostri prodotti di base, da un’agricoltura biodiversa e senza veleni e da lavorazioni artigianali.

In tutto il mondo stanno prendendo piede una serie di politiche e leggi per privilegiare i profitti aziendali a scapito del nutrimento e della salute delle persone. Un sistema che sta distruggendo i nostri mezzi di sussistenza e la salute di tutti i cittadini, favorendo l’appropriazione da parte delle multinazionali dell’agroindustria dei semi, dell’agricoltura, della trasformazione alimentare, dei nostri sistemi di vendita al dettaglio ed economie locali.

I semi, in particolare, sono un patrimonio dell’umanità e chi li possiede ha la possibilità di influenzare profondamente la nostra esistenza. E’ in questo contesto che un gruppo di potenti multinazionali ha deciso di assumerne il controllo.

Assicurarsi il controllo dei semi e imporre il mantra dell’uniformità per facilitare l’espansione delle monocolture intensive, è la principale strategia dei grandi conglomerati sementieri mondiali. Il principio di uniformità, necessario per il successo del modello agroindustriale delle monocolture, entra però in immediata collisione con i principi della biodiversità. La Fao che ha recentemente certificato il fallimento della Rivoluzione Verde e l’emergenza relativa alla biodiversità nel nostro pianeta, con il 75% della diversità genetica vegetale scomparso in soli cento anni. Dalle diecimila specie originarie, oggi si è arrivati a coltivarne poco più di 150 e la stragrande maggioranza del genere umano si ciba di non più di dodici specie di piante, con una conseguente perdita di principi nutritivi nel cibo che consumiamo.

Sono proprio i moderni metodi di selezione ad aver contribuito alla diminuzione del numero di colture, con solo circa 30 specie che soddisfano il 95% della domanda mondiale di cibo, tra cui le quattro maggiori colture di base (grano, riso, mais e patate) che la fanno da padrone. Un circolo vizioso innescato ad arte visto che minore è la biodiversità, con le sue funzioni ecologiche che consentono di rinnovare la fertilità del suolo, di controllare i parassiti e le erbe infestanti, maggiore sarà la dipendenza dalle sostanze chimiche. La monocoltura, tipica dell’agricoltura industriale, è strettamente e strategicamente connessa a una crescente necessità di prodotti agrochimici, in particolare fertilizzanti e pesticidi. E’ facile allora capire perché le multinazionali del settore siano così interessate a imporre ai contadini i loro semi protetti da proprietà intellettuale, sbarazzandosi di tutte quelle varietà tradizionali che non rappresentano, dal loro punto di vista, un valore per la biodiversità, quanto piuttosto uno scomodo concorrente sul mercato.

Le grandi aziende di distribuzione dei prodotti alimentari industrializzati si sono insinuate nei tessuti sociali e distrutto le economie locali e le interazioni quotidiane delle comunità. Se vogliamo che la nostra vita quotidiana non venga più definita dalle logiche dei grandi poteri dell’economia e della finanza globale, è fondamentale assegnare all’auto-organizzazione un valore più alto, dove il nostro lavoro, il nostro territorio, le nostre risorse naturali diventano mezzo ed espressione della vera democrazia.

Il modo in cui produciamo, distribuiamo e consumiamo il cibo, a partire dai semi da cui tutto trae origine, diviene allora anche una questione di rivendicazione dei diritti democratici alla salute e alla sovranità alimentare, dei principi di sussidiarietà e di precauzione. 

Per le economie alimentari locali abbiamo bisogno di cibo locale e per il cibo locale abbiamo bisogno di semi locali, semi nelle mani degli agricoltori. Da sempre gli agricoltori hanno curato e coltivato semi per promuovere diversità, resilienza, gusto, apporto nutrizionale, salute, in adattamento agli agro-ecosistemi locali. In tempi di cambiamento climatico, abbiamo bisogno della biodiversità derivata dalle varietà degli agricoltori, di capacità di adattamento ed evoluzione. Per millenni i semi sono stati selezionati dagli agricoltori allo scopo di ottenere il maggior numero possibile di varietà in continua evoluzione, che si adattassero alle specifiche caratteristiche ambientali e condizioni climatiche di ogni particolare territorio.

Per contrastare questo modello distruttivo è dunque necessaria la mobilitazione della società civile ma altrettanto importante è creare e promuovere un modello agroalimentare che non ci avveleni, che produca cibo sufficiente, che produca lavoro dignitoso e relazioni sociali e che sia in armonia con la terra. La grande forza della diffusione di un modello agricolo, sociale, economico e comunitario di tipo ecologico è nella riconquista di quella autonomia che rende le grandi multinazionali irrilevanti e inutili. E i mezzi per riconquistare la nostra agricoltura, i nostri territori, il nostro cibo, il nostro ambiente naturale sono nelle nostre mani. L’agricoltura biologica ed ecologica e i sistemi alimentari locali sono la risposta alla crisi alimentare, nutrizionale e sanitaria, alla crisi climatica e delle risorse idriche.

Grazie