di Miriam Corongiu*
L’Occidente ha sempre un modo preciso di rapportarsi al cambiamento: lo ignora.
E’ quello che succede da oltre due mesi con le rivolte dei contadini indiani che, in milioni, sono scesi in piazza contro il governo fascista di Narendra Modi. Ci sono già oltre 70 vittime tra i manifestanti. Noncuranti delle rigide condizioni climatiche, si sono accampati per decine di chilometri intorno alla regione di Delhi, nel cuore della quale, lì dove si esercita il potere, è stato impedito loro di entrare. Con ogni mezzo.
Le nuove leggi agrarie, nonostante la propaganda governativa, smantelleranno l’intero impianto dell’agricoltura indiana che, praticata da circa 700 milioni di persone, è la risorsa principale del paese. Basata sulla piccola scala e su una millenaria economia di sussistenza, si poggia sulla definizione di un prezzo minimo per i prodotti agricoli atto a consentire ai contadini di sopravvivere e, attraverso questo calmiere, utile anche a garantire alle fasce più povere della popolazione il sacrosanto accesso al cibo. Sostituire i pesi e i contrappesi adoperati dalla funzione statale con la liberalizzazione del mercato e, di fatto, aprendo la strada alle multinazionali dell’agroindustria, non solo distruggerà l’equilibrio del paese impoverendo ulteriormente milioni di persone, ma avrà pesanti ripercussioni su tutta l’agricoltura mondiale imponendo, con ancor più forza, un modello rapace di sviluppo in luogo della rivoluzione dolce di una cultura agroecologica.
Come non immaginare che tutti gli sforzi compiuti negli ultimi trent’anni da grandi organizzazioni indiane come Navdanya International nella direzione di soluzioni sostenibili dal punto di vista sia ambientale che sociale non vadano in fumo?
“Nutrirsi è fondamentale”, scrive Nadia El-Hage Scialabba nella prefazione all’ultimo libro di Andre Leu e Vandana Shiva (fondatrice di Navdanya) su Agroecologia e crisi climatica. “Ma quanto riflettiamo su ciò che mangiamo e che ci permette di vivere? Quanti conoscono la forte correlazione tra cibo, crisi climatica ed emergenza sanitaria?”. Consegnare l’India, uno dei più grandi produttori al mondo di riso e di numerosi altri prodotti agricoli, alla “Second Green Revolution” auspicata dai magnati dell’agribusiness, significa essenzialmente condannare il mondo intero ad un’accelerazione pazzesca verso il disastro climatico e aprire vaste praterie a quella stretta autoritaria che sempre si coniuga all’agricoltura industriale.
Riusciamo dunque a comprendere che in India si sta giocando una partita cruciale per il futuro non solo dell’agricoltura mondiale, ma dell’umanità tutta? L’India è uno straordinario caleidoscopio di esperienze agroecosistemiche e sociali che dovremmo studiare di più per andare al fondo delle nostre.
Riusciranno i contadini e le contadine italiane nell’improrogabile sforzo di consapevolezza che potrebbe traghettarci verso un cambiamento radicale del comparto e della nostra stessa cultura, senza il quale non ci sarà più fertilità per le nostre terre, nè cibo per i nostri figli?
“Shine on, India farmers”, scrive nell’ultimo appello La Via Campesina: continuate a splendere, contadini indiani, nella speranza che quella luce arrivi anche qui e risvegli l’Occidente dal torpore degli orticelli e dalla morte dell’incoscienza collettiva.
*articolo tratto da “Quaderni Conviviali” del 27 gennaio 2021
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