Agitu, la storia di un nuovo modello agro-pastorale possibile.

La storia di Agitu Ideo Gudeta, arrivata a diciotto anni da Addis Abeba, a Trento per studiare sociologia all’università in fuga dall’Etiopia, paese diviso, in pieno conflitto etnico, decidendo di allevare capre, ha insegnato a tutti noi a credere nel sogno di un futuro sostenibile possibile.

“Voglio seminare la speranza”, diceva, “verso un futuro con fiducia.”

Purtroppo di lei, come delle tante donne che osano sfidare i clichè di uno stereotipo che ci vuole mamme, mogli, protettrici del focolare domestico, sottomesse e compiacenti, rimarrà solo l’ultimo atto crudele della sua morte per mano del suo carnefice.

La vita di Agitu, la sua storia di donna rivoluzionaria e controcorrente, ci assegna invece, un messaggio importante da cui occorre ripartire, all’indomani di questo inizio di 2021 in cui molti ripongono fiducia e speranza di un agognato riscatto.

La pandemia da Coronavirus che ha egemonizzato tutto l’anno appena passato, ci offre un tragico insegnamento su molti errori commessi e ha mostrato l’insostenibilità del modello di sviluppo attuale figlio del neoliberismo. La pandemia però può rappresentare anche un’occasione unica per attuare una transizione verso un sistema più equilibrato e meno permeabile al contagio. Un modello in cui l’agricoltura riprenda il suo ruolo fondamentale valorizzando le produzioni e le aree interne.

Un’opportunità di riconversione dall’agrobusiness imperante che può contare sugli oltre 200 miliardi di euro del famigerato Recovery Found e su altri 300 miliardi circa della prossima Politica Agricola Comune (PAC). Misure, non a caso, al centro di forti pressioni delle lobby e di un acceso dibattito politico per orientare le ricchissime dotazioni.

La storia di Agitu che, con soli 200 euro di partenza, quindi dal nulla, è riuscita a reinventarsi realizzando un’agricoltura che ha rispetto per il territorio, del cibo, individuando terreni abbandonati per farne risorsa al servizio di un allevamento ormai in via d’estinzione, quello delle capre mòchene e riuscendo a realizzare in cinque anni un caseificio dove trasformare il latte da esse prodotto, ci consegna un nuovo umanesimo possibile che può partire solo dalla nostra capacità di cambiare il modo di pensare e che, forte di un’altra prospettiva, può trovare soluzioni più semplici di quanto non si possa immaginare a problemi molto complessi invertendo il rapporto che abbiamo e che siamo costretti ad avere con ciò che mangiamo, liberandoci da un modo di fare che ci ha portati a farci “mangiare dal cibo” facendoci credere che sia l’unico modo possibile o l’unico degno di essere praticato; un modello che devasta le campagne dal punto di vista sociale ed ecologico e crea iniquità ovunque. De-industrializzare il mondo del cibo è l’unico processo possibile per cambiare passo che non significa ridurne le potenzialità produttive o l’efficienza come spesso vogliono spingerci a credere, basti pensare alla concezione sbagliata e diffusa dagli industriali della trasformazione che vuole il grano italiano e del Sud essere considerato poco idoneo alle produzioni rispetto a quello estero. De-industrailizzare significa invece restituire al cibo la sua dimensione naturale in cui gli uomini possono realizzare e godere davvero dei frutti della Terra costruendo alternative come Agitu ci ha mostrato; un esempio in cui, più che altrove, il modello non è stato imposto dall’alto ma lo si è lasciato all’iniziativa della comunità di un territorio che è stato capace intorno alla figura di una donna etiope di ricostruire un sistema di reti locali e su base comunitaria sostenibile, un sistema umano in cui il cibo è tornato ad essere prodotto, consumato e goduto nei modi e nei tempi che solo un territorio sa e può imporre.

La storia di Agitu oltre a parlarci del suo coraggio ci parla di una generazione che sta spingendo per il cambiamento. Un cambiamento che va oltre le false narrazioni della politica, e fa i conti con i veri fatti – visto che a lor signori questa parola piace cosi tanto – che il mondo sta sopportando in questi mesi e non le gli atti di rapina alle spese dell’ambiente, della natura e quindi di noi stessi. Attraverso Agitu la Natura ci parla e ci dice che nonostante le mani rapaci di qualcuno può donarci ancora sostentamento. Se una ragazza etiope ce l’ha fatta senza avere un euro in tasca trasferendo dalla sua terra fino in Trentino Alto Adige quel po’ di conoscenza del mestiere vuol dire che l’agricoltura è ancora il settore primario per eccellenza. In agricoltura nessuno può ricattare nessuno. Basta la voglia di fare. L’agricoltura è ancora la fonte primaria di sostentamento che può diventare una inedita chiave di ricchezza per un paese allo sbando, vittima privilegiata delle bocche fameliche della finanza. Ovvio, se il settore primario deve diventare ancora una volta l’architrave per la ripresa economica, considerando che il “made in Italy” è ancora il passpartout che apre i mercati mondiali, non può esserlo sulla base del semplice volontarismo. Ancora una volta torna quindi in primo piano un concetto, quello della Politica economica, lasciato alle ortiche proprio per servire meglio i poteri forti della finanza. E quale migliore occasione se non le risorse che arriveranno dall’Europa.