editoriale del 30 novembre 2020 di Gianni Fabbris*
Il 27 novembre 2003 un intero popolo, quello lucano, scese nelle strade in festa per aver vinto la sua battaglia per la dignità dopo aver messo in campo la più intensa stagione di disobbedienza civile popolare che in Italia si sia mai conosciuta. Tre giorni prima, il 24 novembre, dopo 14 giorni di straordinaria mobilitazione che aveva spezzato fisicamente l’Italia in due bloccando strade e ferrovie, una grande manifestazione popolare con oltre centomila persone aveva sfilato per dire NO al progetto che avrebbe reso un territorio agricolo straordinario nella pattumiera nucleare d’Italia in cambio di qualche spicciolo usato per comprare le coscienze.
Tutto era iniziato 2 settimane prima con un pugno di trattori degli agricoltori che bloccarono la strada statale jonica all’altezza di Terzo Cavone, un Borgo sperduto di Scanzano Jonico qualche ora dopo che il governo del tempo aveva comunicato il suo blitz che vi imponeva il deposito unico di scorie nucleari, convinto, di poter portare facilmente a casa il risultato nel silenzio generale e per la debolezza della società rurale lucana.
Evidentemente il Governo fidava sulla debolezza della reazione delle genti che abitavano il territorio. Un territorio quello della Basilicata con uno dei tassi di incidenza abitativa più bassi d’Italia e d’Europa (una grande regione di diecimila km2, popolata da 550.000 persone, un quartiere di una grande città italiana)
Un vero blitz, quello del governo Berlusconi che, approfittando dell’occasione della strage di Nassyria e della grande emozione che calamitò l’opinione pubblica, contava non solo sulla debolezza dei numeri nella risposta (che pure doveva aver messo in conto dei cittadini che abitavano il metapontino) ma soprattutto su quelle che pensava dovessero essere le caratteristiche sociali, culturali e civili per cui la società lucana veniva nei fatti descritta come “arretrata” perché profondamente rurale in fondo e quindi prona alle scorrerie del potere e non “reattiva”.
Tesi, del resto, consacrata dal celeberrimo studio di Edward Banfield che, alla fine degli anni ’50, dopo aver soggiornato per nove mesi proprio in uno dei paesi dell’interno lucano, aveva pubblicato “The Moral Basis of a Backward Society ” (Le basi morali di una società arretrata). Riprendendo le tesi di Tocqueville per cui nei paesi democratici la scienza dell’associarsi sia madre di tutti gli altri progressi, Edward Banfield teorizzò che certe comunità sarebbero arretrate soprattutto per ragioni culturali e uno delle loro caratteristiche era, appunto, l’incapacità di farsi colletività guardando agli interessi generali e pubblici. La loro cultura presenterebbe una concezione estremizzata dei legami familiari che va a danno della capacità di associarsi e dell’interesse collettivo. Lo chiamò “familismo amorale”, appunto, quello per cui gli individui di queste società arretrate sembrerebbero agire come a seguire la regola e l’obiettivo morale degli interessi “famigliari”, del piccolo clan di riferimento operando per “massimizzare unicamente i vantaggi materiali di breve termine della propria famiglia nucleare, supponendo che tutti gli altri si comportino allo stesso modo”.
A Scanzano durante i 14 giorni di una mobilitazione popolare straordinaria nonviolenta ma fortemente determinata, intergenerazionale e assolutamente trasversale, si dimostrò come questa tesi, ove mai ne fosse stata capace, non era più in grado di spiegare e raccontare la trasformazione nel Sud e nelle sue aree rurali. Scanzano e i suoi agricoltori diventavano il centro di una nuova modernità che metteva, invece, i beni pubblici al centro rifiutando la proposta di una “modernità arretrata” che usava le aree rurali per scaricarvi in realtà le scorie politiche, materiali, sociali, economiche di un modello insostenibile.
Insomma le parole di quella gente che viveva nelle aree rurali esprimevano “coscienza pubblica e collettiva” rompendo l’idea del familismo amorale; venivano fuori parole nuove e moderne che rivendicavano la dignità di vivere il territorio, gli interessi comuni, il diritto al futuro e le pronunciavano insieme senza equivoci rompendo il ricatto di un potere che usava parole arroganti e vecchie «voi ci mettete a disposizione il territorio, noi ci facciamo quello che ci pare e, in cambio, vi offriamo un po’ di occupazione, un campo di calcio, qualche finanziamento alle Pro Loco». Per la prima volta questo gioco troppe volte visto e subito non funziona. Per la prima volta in modo deciso e diffuso le popolazioni rivendicano il loro diritto a sapere, ad intervenire, a decidere
La mobilitazione di Scanzano vinse, in quattordici giorni il governo berlusconi tornò sui suoi passi e, dopo, molte altre comunità avrebbero saputo sviluppare la loro attitudine modernissima alla resistenza ed alla resilienza contro una crisi che affilava le sue armi e intrecciava sempre più i suoi piani diventando al tempo stesso crisi economica, sociale, ambientale e di democrazia.
Se tante altre comunità sono scese in campo in tanti altri territori d’Italia dimostrando di saper sempre più interpretare il vero orizzonte della modernità (quello della democrazia, della partecipazione, della giustizia sociale, ambientale ed economica) il potere politico ha sviluppato sempre di più le tecniche dell’esclusione e, in maniera più “evoluta” ha messo in campo strategie più accorte per la difesa degli interessi delle lobbies che governano un modello di sviluppo sempre più insostenibile. Con il risultato che, spesso, ha vinto e le comunità resistenti non riescono a farsi forza capace di vincere restando ricacciate negli argini chiusi delle proprie esperienze che raramente hanno saputo tornare ad essere forza popolare e, quando questo è avvenuto, sono state “chiuse e isolate” in confini divisivi e localizzati.
Forse, oggi, dobbiamo fare tesoro di quell’insegnamento e imparare a superare le nuove forme di familismo del nostro tempo, quello, per esempio, che divide i protagonisti dell’impegno sociale lasciandoli tutti a coltivare il proprio orticello autoreferente in cui ognuno pensa crede che la sua “piccola e sicura comunità” sia il centro del progetto strategico per cambiare il mondo.
In verità il progetto strategico non si vede. Si vedono, si, tante esperienze resistenti ma chiuse in un “familismo collettivo autistico” incapace di farsi progetto in grado di interpretar la pur diffusa coscienza generale.
Il movimento degli agricoltori non ha la presunzione di essere il centro del mondo, nemmeno di essere la guida politica … sappiamo mettere i trattori nella strada quando serve e oggi siamo pronti a farlo per dare forza ad una prospettiva, quella della Riforma Agraria e Popolare, che ha un senso solo se l’intera società saprà assumere il terreno del diritto al cibo, alla terra, al territorio, al mare come interesse generale e fondamentale. Esattamente come accadde a Scanzano senza bisogno di fare prima “riunioni, coordinamenti e intergruppi”.
Del resto tutti dobbiamo nutrirci … la differenza non può essere fra chi il cibo sicuro può comprarselo e vive in ville recintate e chi il cibo non può comprarlo ed è costretto agli hard diskount ed a territori ambientalmente devastati. Serve un vento nuovo e dalle campagne il vento si sente arrivare
*Gianni Fabbris è coordinatore editoriale di Iafue, del direttivo di Altragricoltura e della Presidenza di LiberiAgricoltori, promotore nel Costituente per l’Alleanza per la Sovranità Alimentare