editoriale del 23 novembre 2020 di Fabio Sebastiani
Il ruolo delle città sarà sempre più importante. Secondo le stime condivise, tra 30 anni, nel 2050, le persone sul pianeta saranno quasi 10 miliardi (9,8 per la precisione) ma di queste, il 70% vivrà nelle città o, più precisamente, nelle aree urbane. Tuttavia, la sostenibilità energetica e ambientale di questi agglomerati non potrà prescindere da un’organizzazione olistica di tipo intelligente, un modello in cui la tecnologia sarà in grado (e in molti casi già lo è) di gestire le risorse in modo flessibile, distribuito e accessibile. Il modello in questione è quello delle smart city e prevede diverse novità rispetto a quanto si è abituati a vedere oggi nelle nostre città a partire dalla tipologia di edifici che si integreranno con l’ambiente naturale. L’indipendenza energetica grazie alle rinnovabili, l’emissione zero di CO2 attraverso meccanismi compensativi, la depurazione delle acque e riciclo delle stesse insieme a una micro-produzione agricola locale sarà lo standard. Nel frattempo che accada questa traslazione i “cittadini” vivendo una crisi profonda di habitat stanno cambiando profondamente. E prima o poi decideranno di volgere in positivo le loro frustrazioni. Che il cambiamento sia una rottura o in continuità dipende solo da noi. Non è un dubbio retorico. La città, infatti, non sembra contenere fattori di riformabilità. La città, in fondo, ha proprio nella socialità il suo fattore più importante. E quando cambia questa per mille ragione la città dovrebbe seguire di conseguenza, pena il rischio che diventi una fortezza invivibile. Ed è una socialità che prescinde dalle linee economiche. Si tratta proprio del modo di stare insieme, di relazionarsi. Il punto è che quando questa socialità è spinta dal profit-to e non dalla libera scelta allora la fisica delle particelle potrebbe rivelare grandi soprese.
E’ chiaro che occorre un piano nazionale per la rigenerazione urbana, capace di integrare progetti fisici con aspetti sociali, ambientali ed economici; un ‘Progetto per le città e le economie urbane’ che sia sostenuto già da subito dalle risorse del Recovery Fund e sviluppato mediante precisi partenariati tra amministrazioni territoriali ed organizzazioni sociali. La città è infatti un meccanismo complesso. Occorre una transizione armonica e, nello stesso tempo, non come è accaduto in epoche recenti, imposta dall’alto. Per la prima volta non sarà più l’urbanistica, che poi vuol dire il potere economico e politico, a guidare lo sviluppo ma altri fattori che gli urbanisti finora hanno sempre messo tra le eventuali e va-rie. Occorre mettere in campo una profonda revisione dell’approccio alla città, che coniughi le trasformazioni edilizie e la sutura del tessuto urbano con un nuovo modello di sviluppo delle economie locali, ponendo particolare attenzione al rafforzamento dei servizi di prossimità che, in emergenza sanitaria, si sono configurati come una vera infrastruttura di pubblica utilità, con valenze economiche e sociali. L’obiettivo è quello di una generale riattivazione delle economie territoriali, a partire dalle aree interne e montane e nei piccoli borghi. Questo per le grandi città vorrebbe poter dire riparametrare tutto in un raggio di tre-sei chilometri mirando ad un quanto più completo bagaglio di funzioni. Esattamente il contrario di quanto si è perseguito in questi anni.
In questo riequilibrio tra aree urbane e aree interne sta uno dei nodi fondamentali della nuova epoca. Da una parte le città devono smettere di crescere e mettere mano alla riqualificazione interna che ovviamente non deve guardare all’aspetto quantitativo ma a quello qualitativo. Questo vuol dire per esempio che i trasporti non potranno avere più la funzione di collegare massivamente punti disparati della mappa urbana. Questo non vuol dire che saranno aboliti, ovviamente, ma che la loro funzione sarà nettamente modificata. Il grande tema della riqualificazione urbana non potrà tralasciare la presenza massiccia di aree verdi produttive in grado di rafforzare l’accorciamento della filiera alimentare. In pratica le città si modelleranno sempre più seguendo l’impronta delle aree interne. Che avranno quindi una sorta di rivincita qualitativa. I trasporti, questo si, serviranno di più come elemento di sutura ma non avranno più quella capacità massiva che hanno adesso.
Il Rapporto Coop 2020 dello scorso settembre, ha affermato che la pandemia, oltre agli effetti drammatici sulle vite, è stata un elemento di grande rottura dei trend in atto. Lo studio di Coop, analizzando i consumi durante la pandemia, rappresenta bene lo scenario che si verrebbe a costituire se la nuova normalità diventasse la normalità definitiva, mettendo in evidenza come le mura domestiche potrebbero diventare sempre più la roccaforte di una dimensione del cittadino che cerca protezione. I nuovi trend parlano di una vittoria del do it yourself per il quale vi sarà una rinuncia massiva a figure come colf e persone dedicate alle pulizie domestiche, a badanti con un aumento del tempo dedicato alle persone non autosufficienti. Cresce anche il trend del fai da te in casa, del giardinaggio e floricoltura, bricolage e altro. Così come il tempo passato davanti ai fornelli. Un cambiamento che trova supporto dall’implementazione diffusa dello remote working. Il fenomeno è un cortocircuito: remote working, quindi risparmio di tempo correlato agli spostamenti utilizzato ad attività domestiche che, fino a prima, si acquistavano in termini di servizi. Il tutto reso ancora più fluido dalla flessibilità di gestione del tempo. Tutto questo appare come la tempesta perfetta sull’economia delle città in cui la mobilità crolla e con essa il mercato dei servizi.