Dal latte versato ai piedi per terra.

Pubblichiamo la scheda prodotta dalla redazione di Iafue PerlaTerra con cui è stato aperto il Forum “I pastori fra crisi e progetto” andato in onda in diretta il 16 novembre 2020. Nei prossimi giorni daremo conto del ricco dibattito.


Per la stagione 2016-2017 è stata dichiarata dai pastori sardi una produzione di 284 milioni e 108 mila litri di latte da pecora, più della intera Francia che ne ha dichiarato 263 milioni. Il 70% della superficie isolana è destinata al pascolo. L’intera filiera dell’ovicaprino, tra aziende di produzione, trasformazione e indotto, ha circa 40 mila addetti, con un valore che sfiora i 400 milioni di euro all’anno.

La Sardegna è nel Mediterraneo la terra in cui è più alta la concentrazione di pecore: due ogni abitante, oltre 3 milioni di capi ovini per 1,6 milioni di persone. In Italia, come in Grecia, se ne contano poco più di 6 milioni, in Francia 5 milioni e mezzo.

Lucio Columella, il grande storico latino, sosteneva che “Tutto il Mediterraneo è un mare di montagna”, attorno al quale tra coste e monti si svilupparono, per millenni, mille piste per la transumanza, i “tratturi”.


In un lungo rapporto a volte conflittuale ed a volte di integrazione che la pastorizia è arrivata a differenziarsi dall’allevamento classico in stalle o recinti perché gli animali si nutrono lasciati liberi in un ambiente naturale pascolando allo stato brado anziché nutriti con risorse dell’allevatore.

Sempre Lucio Columella propugnava la cooperazione fra agricoltura e allevamento che porta vantaggi per entrambi, moltiplicano le produzioni, usa e rimette in ciclo il letame degli animali allevati, fecondando i campi che offrono, così, abbondanza di fieno per alimentare convenientemente gli animali durante l’intero corso dell’anno.

Un lungo rapporto di relazione che, in Sardegna come altrove nel Mediterraneo, aveva trovato anche in epoca moderna, un equilibrio delicato, rotto di fronte ai profondi processi di trasformazione venuti avanti con l’integazione dell’agricoltura dell’Isola, dell’Europa e del Mediterraneo al modello agroalimentare dominante industrialista, produttivista e mercatista del nostro tempo.

La pastorizia sarda, così, entra in una fase nuova e, dopo un lungo ciclo di diverse trasformazioni e adattamenti, costretto dalla crisi dell’agricoltura e dal venire avanti della trasformazione industriale, conosce prima i processi di sedentarizzazione poi la dipendenza dalla industria casearia. Una industria che governa completamente una filiera in cui il pastore è inteso come mungitore ovvero come conferitore del latte. Un latte per la gran parte utile a fare un solo prodotto: il pecorino romano, un formaggio che ha caratteristiche da mercato di massa molto orientato all’esportazione e poco capace di evolvere per adeguarsi all’evoluzione dei gusti dei consumatori, nonostante gli sforzi dei pastori.

Su oltre 12 mila aziende pastorali sarde, più di 10 mila producono latte per la trasformazione in pecorino romano, un formaggio che rappresenta 81,54% dei pecorini dop prodotti in Italia e il 52% di quelli Ue. Insomma, la monocoltura produttiva alimentata dalla forte domanda estera è rimasta intatta nella sua vergine definizione iniziale: il 91% del formaggio prodotto in Sardegna è quello romano, mentre le altre tipologie di formaggi rimangono assolutamente residuali (5% di pecorino sardo maturo, 2% di pecorino sardo dolce e stessa quota di “fiore sardo”).

Il latte gestito dagli industriali diventa una commodity, una merce da quotare in funzione delle valutazioni del mercato speculativo spesso internazionale e poco ha a che fare con la diversificazione. La competizione diventa di prezzo e non certo sulla qualità o la diversificazione.

Negli ultimi 10 anni sono stati investiti 600 milioni di euro di risorse comunitarie che hanno migliorato lo stato di salute degli animali, diminuendo sensibilmente la carica di cellule somatiche media degli ovini. Infine, nei 28 anni che vanno dal 1982 al 2010 la media di pecore per azienda è cresciuta del 97%, passando da una media di 121,3 pecore a 239.

Sono apparsi sulle piazze americane importanti e agguerriti competitors, come i bulgari, i rumeni e gli argentini. Infine, è cambiato anche il mondo del consumo, laddove ai prodotti piccanti e “duri” si preferiscono – anche per ragioni di una nuova cultura dietetica – formaggi leggeri e molli, meno ricchi di grassi anche se meno saporiti.

E’ dentro questi passaggi che è scoppiata l’ultima protesta clamorosa dei pastori in Sardegna che si sono ribellati alla situazione: il latte pagato dagli industriali a 60 centesimi (e meno) a fronte di stime di costi di un euro e dieci.

Come è andata lo sappiamo: la politica ha finito per strumentalizzare la rabbia ma i problemi sono rimasti tutti di fronte alla crisi dei pastori..

Crisi e problemi che ha ben chiaro il Movimento Pastori Sardi, una delle più originali e preziose esperienze di ricostruzione del protagonismo di chi lavora la terra e che, è stato ben capace negli anni, di tenere insieme la resistenza, la mobilitazione con la ricerca del progetto.

Il Movimento, che ha sviluppato lotte e vertenze rigorosamente legate agli interessi concreti dei pastori, propone una svolta profonda nel modello pastorale sardo fino a chiedere una “legge sul pastoralismo” provando, per questa via, a rimettere al centro la funzione dei pastori nella consapevolezza che il loro ruolo ha bisogno di alternative vere alla dipendenza dalla produzione industriale e dal comando della finanza.

Obiettivo strategico quello che si è posto in questi anni il Movimento Pastori Sardi che potrebbe riunificare tante esperienze nel Mediterraneo dove la Pastorizia, in un tempo in cui l’agricoltura, l’allevamento e la pesca, tornano ad essere al centro di molte attenzioni potrebbe essere uno dei terreni su cui ricomporre l’unità degli interessi delle sue genti.

Forse ripartire dal latte, che è pur sempre il primo alimento che ha nutrito tutti noi, può essere un buon modo per riprovarci e, forse, i pastori potrebbero guidarci nella transumanza vera di cui abbiamo bisogno come comunità del mediterraneo: quella che ci porta fuori da questo mercato devastato per condurci in un rapporto con la terra che ci nutra di diritti.

Come recuperiamo la funzione sociale e il ruolo dei pastori oggi? Come lo facciamo in Sardegna e in tutto il Mediterraneo? Come lo sosteniamo nel fornire prodotti e servizi diversificati, di qualità, legati al territorio? Come i processi di impresa possano remunerare gli investimenti garantendo il reddito, il prezzo ai consumatori, i diritti dei lavoratori? Come questi processi stanno nel rapporto con la rinaturalizzazione dei territori dentro cui ha senso una pastorizia di qualità e con la rigenerazione delle comunità.