Se l’agricoltura europea dice addio al Green Deal

Cara ministra Bellanova, te lo dico sinceramente: grazie di niente! La nuova politica agricola comunitaria delude e preoccupa perché somiglia sempre meno a quella che aveva disegnato la Commissione europea e sposta il baricentro a vantaggio di un modello agricolo intensivo e ad alto impatto ambientale.

I ministri dell’agricoltura dell’UE hanno adottato una posizione che indebolisce la proposta della Commissione e anche il Parlamento Europeo ha approvato emendamenti peggiorativi del testo. Tanto che molte associazioni e movimenti ambientalisti, come Greenpeace, Legambiente, WWF e i Fridays For Future, mettono in dubbio sia possibile con questo scenario raggiungere gli obiettivi del Green deal. Grazie davvero invece agli europarlamentari che non hanno votato a favore della posizione adottata a Bruxelles segnalando un importante dissenso.

La contraddizione è doppia per l’Italia, considerando che siamo leader in Europa per sicurezza alimentare e agricoltura di qualità. Lo confermano il rapporto Ismea e i dati Sinab da cui emerge che l’Italia può contare su 80 mila operatori del biologico e 2 milioni di ettari coltivati con metodo bio, numeri che ci consegnano un primato europeo. Cibo buono, sano e di qualità, coltivato rispettando l’ambiente e la salute, senza avvelenare terra e acqua con l’uso di pesticidi diserbanti o concimi chimici. Qualità grazie alle quali il made in Italy alimentare è apprezzato nel mondo. E sempre più ricercato anche in casa visti i dati sui consumi di prodotti bio, arrivati a un significativo +11% durante il recente lockdown.

Eppure non è questo modello di agricoltura che il nostro Paese sta rivendicando e mettendo al centro della nuova Politica agricola comune (Pac).

Il recente Consiglio Europeo AgriFish e il Parlamento Europeo stanno smontando la nuova architettura verde della Pac post 2020 proposta dalla Commissione Europea. Così oltre a compromettere il contributo dell’agricoltura agli obiettivi del Green Deal, si danneggia anche la vocazione all’eccellenza del nostro settore primario.

Il Consiglio Europeo ha, per esempio, stabilito che i nuovi eco-schemi della Pac – ossia lo strumento ideato dalla Commissione europea per stimolare gli agricoltori a prendersi cura dell’ambiente – avranno un budget finanziario minimo del 20%. Una dotazione deludente e insufficiente. Come se non bastasse ha concesso agli Stati membri una lunga fase pilota di due anni per adattarsi al cambiamento e ha indebolito le norme sulla condizionalità ambientale.

Non va molto meglio sul fronte del voto del Parlamento europeo, dove è stato approvato un blocco di emendamenti, presentati dai tre maggiori gruppi politici europei, il Partito popolare, i Social Democratici e i liberali di Renew Europe, che nonostante un più incoraggiante 30% di fondi per gli eco-schemi indeboliscono l’efficacia ambientale di questo strumento blindando una larga fetta dei budget nazionali dei pagamenti diretti (60%) per il sostegno al reddito degli agricoltori (in realtà un sostegno di cui beneficiano in modo largamente prevalente i grandi proprietari terrieri e gli allevatori intensivi, trattandosi di sussidi proporzionati alle superfici coltivate e al numero di capi allevati), allentando le norme sulla condizionalità ambientale e riservando un misero 6% al sostegno delle aziende piccole e medie, vera ossatura del tessuto rurale nelle nostre aree interne. Ciliegina sulla torta: è stato bocciato l’emendamento che prevedeva l’inserimento degli obiettivi del Green Deal europeo nella PAC.

Sul fronte delicatissimo degli allevamenti, che ha a che fare non solo con l’impatto ambientale e la sicurezza alimentare ma anche con il benessere degli animali, non è stato stabilito alcun tetto massimo per la densità di capi per ettaro negli allevamenti intensivi e le sovvenzioni per ora sono invariate. Nessun budget specifico per proteggere la biodiversità sui terreni delle aziende con stagni, siepi e piccole zone umide e addio all’obbligo di almeno il 10% dei terreni agricoli dedicati alla biodiversità.

Una piccola luce arriva dal via libera all’emendamento che fissa una percentuale minima (5%) della spesa per la protezione dell’ambiente e dalla risoluzione, salutata con favore dalla Flai Cgil, che introduce la clausola sociale nella Pac e afferma la tutela dei diritti dei lavoratori braccianti. Nell’insieme però i pochi elementi in positivo non bastano. Così vince l’agricoltura intensiva.

Letteralmente stupefacente, come denunciato dalle associazioni della coalizione Cambiamo Agricoltura, che di fronte al peggioramento della proposta sulla Pac presentata della Commissione, ci sia stato un tentativo diffuso di far passare il tutto come una svolta green. La ministra Bellanova è andata oltre. Ha dichiarato, tra l’altro, di non ritenere opportuno fissare a priori una percentuale di risorse dei pagamenti diretti da destinare agli eco-schemi, che comunque la percentuale del 20% è troppo alta e di apprezzare sia le modifiche per dare più flessibilità rispetto alle buone condizioni agronomiche e ambientali sia l’esclusione del riso dalla costituzione delle aree ecologiche: eppure, specie da quando viene coltivato in asciutta, il riso è tra le monocolture peggiori, sia sotto il profilo del degrado del suolo, che dell’impiego di pesticidi pericolosi per le acque e la salute umana.

Sul testo della nuova Pac l’Ue dovrà avviare il trilogo tra Commissione, Parlamento e Consiglio. Ma se queste sono le premesse il green deal agricolo, su cui tanto e bene si era fin qui spesa la Commissione Europea a guida Von Der Leyen, rischia seriamente di morire in culla. E il clima dovrà attendere ancora. Come se avessimo a disposizione altro tempo. Come se agricoltura e allevamenti intensivi non dessero un contributo importante alle emissioni europee. Come se la crisi climatica fosse solo un incubo precedente all’avvento del covid e non una drammatica realtà.

Rossella Muroni Ecologista e deputata della Commissione Ambiente. Già presidente nazionale di Legambiente