Il futuro e la salute del Mediterraneo, della sua economia, del suo complesso ecosistema, sono temi sempre attuali, che coinvolgono da tempo immemorabile studiosi ed esperti di varie discipline scientifiche, impegnati ancor oggi a individuare soluzioni praticabili, in grado di riequilibrare una situazione di generale instabilità e criticità.
Ne parlano da decenni – e ancora di recente ne hanno parlato – accademici, tecnici, giornalisti, politici, ruotando attorno a questioni in larga parte cruciali, sensibili, talvolta anche urgenti come il cambiamento climatico e le tonnellate di plastica disperse nel “Mare Nostrum”. Ma troppo spesso e troppo gravemente il loro argomentare, le trattazioni, le prospettive addotte non pongono al centro del dibattito – figuriamoci del fare! – l’agricoltura, o meglio l’agricoltore e l’economia agricola e rurale.
Tematiche come lo European Green Deal e la strategia Farm to Fork, se da un lato appaiono all’ordine del giorno, dall’altro sembrano limitarsi a riempire bocche e soddisfare uditori non del tutto partecipi e assai poco coscienti. Questioni apparentemente centrali, che non sarebbero marginali come sono, se i nostri agricoltori riuscissero a vivere della vendita delle proprie produzioni.
Parlare poi della necessità – sacrosanta – di garantire a tutte le donne e gli uomini delle nostre comunità l’accesso al cibo è un concetto tanto rilevante, socialmente, quanto paradossale per chi il cibo lo coltiva nei propri campi e non riesce a venderlo ad un prezzo adeguato, per via dei meccanismi su cui questo mercato è stato costruito.
Da troppi anni sul Mediterraneo si scaricano un’infinità di contraddizioni e problemi, in larga parte generati da una politica comunitaria incapace di prevedere le conseguenze di azioni dissennate, attuate da amministratori che inopinatamente hanno spostato molte produzioni dal Sud dell’Europa al Nord dell’Africa, innescando processi di disequilibrio da cui sono scaturite le peggiori speculazioni neoliberiste.
In questo tragico scenario, territori e comunità di agricoltori, contadini, pastori, si sono viste costrette ad accantonare le loro culture, ad allontanarsi dalle proprie radici, per farsi operai, tecnici, manutentori, trasportatori, al servizio di un’industria con insegna locale e capitali stranieri.
Imprenditori italiani, francesi, spagnoli, tanto per fare tre esempi, sono stati così agevolati negli anni ad investire in unità produttive nei Paesi del Nord Africa, ad esportare là tecnologie e know-how, a delocalizzare per ridurre i costi di produzione e incrementare i profitti. Tutto questo senza curarsi delle ripercussioni che si sarebbero generate, le cui conseguenze sono da tempo sotto gli occhi di chi le vuol vedere.
Dentro queste dinamiche abbiamo assistito ad una progressiva desertificazione di vasti territori – larga parte della Grecia, Italia meridionale, Spagna – a causa dell’indebolimento del tessuto produttivo. Da qui sono scaturite forti tensioni sociali e un generale senso di frustrazione e di sconfitta.
Ed è proprio da qui che forse il mondo rurale deve ripartire, per superare uno dei maggiori ostacoli che la politica centrale e l’agricoltura della crisi hanno generato: dalla coscienza che non siamo un’agricoltura contro le altre opposte bensì donne e uomini di vari Paesi uniti da questioni comuni che vanno affrontate in una prospettiva unitaria, ridisegnando uno scenario e una strategia che nessuno sin qui è stato in grado di concepire, e di farlo attraverso un’alleanza di bacino.
Un’alleanza per cui nel giugno del 2005 a Barcellona erano state gettate le basi, con il primo Forum Sociale del Mediterraneo. Fu quello un raduno che – quattro anni dopo il Forum Mondiale di Porto Alegre – vide convergere nella capitale catalana non meno di quattromila attivisti, impegnati in centinaia di momenti di confronto, dialogo e crescita – tra seminari, laboratori, conferenze e assemblee – che coinvolsero più di trecento associazioni provenienti da tutta l’Unione Europea, dal Maghreb, dal Vicino Oriente.
Fu quello il momento in cui gli agricoltori del Mediterraneo furono più vicini a trovare una strada, un linguaggio e un’azione comuni. Ed è da lì, con gli strumenti che allora non avevamo, con una coscienza forse non del tutto matura, che bisognerà ripartire uniti, per rispondere all’aggressione violenta delle lobby, delle multinazionali e del neoliberismo.