Carlo Petrini: «Il Coronavirus ci obbliga a migliorare il mondo del cibo, e non solo»

tratto da Vanity Fair (leggi articolo originale)

Il fondatore di Slow Food guarda al dopo. «Che senso avrebbe comportarsi come prima? Dobbiamo dare più spazio alle comunità, alle osterie, alla terra. E tornare a produrre, in tanti, quanto mangiamo»
In mezzo a tanti politici improvvisati, Carlo Petrini («Mi chiami Carlin, per favore, sennò non mi ci trovo» chiede serissimo dall’altro capo del filo) è una persona che fa vera politica. A modo suo e senza cariche, a parte quella di Presidente di Slow Food: il movimento del cibo che ha fondato nel 1989 e ha contribuito in maniera decisiva a creare una cultura sul tema, prima in Italia e poi nel mondo. Da qui è nata poi Terra Madre (la rete mondiale dei produttori di cibo, dall’Alaska alla Nuova Zelanda) e l’Università degli Studi di Scienze Gastronomiche a Pollenzo di cui è stato l’ispiratore nel 2003. Parlare con Petrini, in questo periodo, è una ventata di aria fresca perchè – a dispetto della situazione drammatica – ha sempre il pensiero volto al futuro. Come tutti, non vede l’ora che finisca l’incubo che ha colpito duramente anche il suo amato Piemonte, ma ha già le idee chiarissime per il dopo. «Ne usciremo migliori di prima» sostiene, ancora prima della domanda che apre l’intervista.

Petrini, domanda necessaria: che cosa succederà?
«Ci sarà un ridimensionamento delle politiche liberiste. Confido in un futuro più sostenibile, in tasselli di nuova economia da non misurare solo attraverso il Pil. Che senso avrebbe ricostruire tutto come prima? Ci è data l’opportunità di fare un cambio di paradigma. Di reimpostare un sistema che dia più spazio ai territori e alle comunità. Quindi penso che le tematiche della sostenibilità e della sovranità alimentare diventeranno all’ordine del giorno».

Sovranità alimentare: termine curioso. Ce lo spiega?
«Non si può più pensare che il cibo lo produce uno solo per tutti. Abbiamo rubato spazio alla terra, bisognerà riprenderselo per mettere in moto un’economia primaria al servizio delle comunità locali. C’è stato negli ultimi anni un ritorno alla campagna da parte dei giovani. Mi auguro ci siano incentivi per aumentare il numero di chi fa questa scelta di vita, utile al Paese. Così vorrei si capisse sempre di più che la stagionalità e la prossimità di un prodotto non è una fissazione ma semplicemente risponde a una logica di consumo sano, economico, vantaggioso per tutti».

In un articolo su La Stampa ha fatto delle riflessioni sugli assalti ai supermercati e sull’importanza delle botteghe
«Quando parlo di sostituire un’economia del profitto con un’economia dei beni comuni e delle relazioni significa tenere in vita altre realtà accanto ad Amazon e ai supermercati che stanno facendo i record storici di presenze e incassi. Invece, bisogna rilanciare le botteghe o i piccoli negozi di quartiere. Qualcuno mi darà del matto. Ma io dico che bisogna fare uno sforzo di fantasia. Io penso a una versione moderna di questi luoghi, gestiti da giovani. Con l’accesso a Internet e tutta una serie di servizi, dove magari si può ritirare la pensione. Ci vogliono nuove idee, mai come in questo momento»

Provocazione: non è che questa crisi invece servirà solo a far sviluppare in maniera enorme il commercio on line? Portano tutto a casa, si evita di uscire e si rispettano le regole
«L’uomo è per sua natura sociale. Senza dubbio l’e-commerce ne uscirà rafforzato ma non ci sono solo ricadute positive perché l’accentramento delle risorse in questo modo passa dalle mani di pochi a quelle di pochissimi. Io penso che questo discorso di far rifiorire le comunità possa andare di pari passo con lo sviluppo dell’online, senza che ci siano contrasti, perché nella comunità c’è la sicurezza affettiva che su internet non si trova»

Lei è un uomo di prodotto, ma conosce benissimo anche la ristorazione. Molti dicono che ci sarà un’ecatombe di locali
«Spero si sbaglino, pensando anche a quanti lavorano per fornirli. Di sicuro vedo un paio di anni più tranquilli, rispetto al boom che abbiamo vissuto dal dopo Expo al 2019. Non ripartiremo a razzo con gli stessi fatturati perché non c’è la bacchetta magica. Dobbiamo prepararci a una strada in salita cercando prima di tutto di mettere in sicurezza quanti operano nelle strutture».

Lei è un fervente sostenitore delle osterie come luogo dove si tramanda non solo la cultura del cibo italiano ma anche la storia e la cultura del Paese. Non sarà facile ripartire per loro, anche se non hanno problemi di decine e decine di dipendenti come le catene o i grandi ristoranti. Sono a gestione familiare o con pochi addetti
«Sarà molto complicato, in misura maggiore che per la fascia alta che punta a pochi coperti di grande qualità. E le catene di locali hanno le spalle grosse e la capacità di riprendersi. Invece. consideri cosa vuole dire per una trattoria restare chiusa un paio di mesi, non incassare realmente un euro! E quando riapriranno, non potranno essere quelle di prima: leggo di tavoli più distanziati, dell’obbligo di prenotazione, di controlli sanitari all’entrata. Tutto giusto, sia chiaro, nella fase iniziale della ripresa che ripeto metterà a dura prova tutti. Senza dimenticare che in trattoria ci andavano le persone che probabilmente sentiranno maggiormente gli effetti della crisi post-Coronavirus».

Ma ce la faranno?
«Sì, perchè oggi più che mai, la loro centralità – soprattutto in provincia – diventerà il motore di una comunità. Per il cibo e il vino di qualità, ma soprattutto perchè le persone tornino a confrontarsi: c’è bisogno di tornare a stare insieme, alla convivialità quando lo si potrà fare. Ecco perchè dico sempre agli ‘osti’ che hanno un ruolo sociale, gestiscono un luogo d’incontro e non solo un posto dove si mangia e si beve. Devono far funzionare i loro locali perchè muovono una piccola grande economia sul territorio ma non perdere mai l’anima, la passione per il loro lavoro».

Quali notizie ha dai Presidi Slow Food?
«Non mollano, come tutti noi. Stanno lavorando, in quanto compongono la fliera agro-alimentare. Poi hanno la fortuna che sono protetti concretamente e moralmente dai territori, E si torna all’importanza della comunità. Non esiste solo il PIL: esiste ‘anche’ il PIL ma quelli che io definisco ‘beni comuni e relazionali’ hanno un valore fondamentale per il funzionamento della società»

Quindi torneremo a stare bene?
«L’ho detto prima dell’intervista. Non torneremo come prima, ma meglio di prima»