La transumanza degli schiavi made in Italy

tratto da Terre di Frontiera (leggi articolo originale)

Fuoricampo è un diario pensato per dar voce agli invisibili. Un viaggio a puntate alla scoperta delle storie dei nuovi schiavi, dei nuovi emarginati d’Italia. A parlare sarà la realtà. Nessuna costruzione, nessun archetipo. Come Caronte, Ibrahim – un ragazzo senegalese, uguale a tanti altri, che vive nel ghetto Chitomeni, uno dei tanti del Sud Italia – ci traghetterà nell’Inferno di una quotidianità che non ci appartiene. Perché solo quando l’intangibile si può toccare, diviene reale. E solo raccontando queste storie i loro protagonisti potranno finalmente avere un volto, un nome e una voce. Un grido di speranza che raggiunga le coscienze, fuori dal campo.

Noi non ci bagneremo sulle spiagge / a mietere andremo noi
e il sole ci cuocerà come la crosta del pane.
Abbiamo il collo duro, la faccia / di terra abbiamo e le braccia
di legna secca colore di mattoni.
Abbiamo i tozzi da mangiare / insaccati nelle maniche
delle giubbe ad armacollo.
Dormiamo sulle aie / attaccati alle cavezze dei muli.
Non sente la nostra carne / il moscerino che solletica
e succhia il nostro sangue.
Ognuno ha le ossa torte / non sogna di salire sulle donne
che dormono fresche nelle vesti corte.
(“Noi non ci bagneremo” di Rocco Scotellaro, Lucania)

PROLOGO
Lavorare, lavorare sempre, senza farsi troppe domande. Ore e ore nella terra, con il gelo o con il sole, con la pioggia o con il vento. Arare, seminare e infine raccogliere. Un ciclo di vita lungo una stagione, qualunque essa sia. Poi il nastro si riavvolge e tutto ricomincia in un nuovo campo, con un nuovo padrone. Un bracciante agricolo vive al ritmo delle ore di lavoro giornaliere. Sono quelle che gli assicurano il pane quotidiano, un tetto sopra la testa e, quando si è particolarmente fortunati, persino una mini-azienda a conduzione familiare. Ma se sei un bracciante agricolo, in questo Paese, hai il 50 per cento di possibilità di essere un lavoratore in nero. Lo rivela il rapporto annuale dell’Ispettorato del lavoro relativo al 2017: su 7.265 ispezioni effettuate, 5.222 lavoratori sono risultati irregolari e 3.549 in nero. I numeri dei braccianti vittime di sfruttamento, invece, sono sommersi. Eppure basta poco per incontrarli. Sono tra i nostri campi, nelle terre arse battute dai briganti, nascosti tra le cupe e gli anfratti che cantano, come i poeti, la nostra storia più antica. Sono la nostra vergogna primitiva e moderna. Vivono e talvolta muoiono mentre i colori della natura mutano, sordi come la nostra indifferenza. Cambia la pelle ma resta la polvere, il sudore, la fatica.
“Mia vita pussa, pussa sempre. Pussa quando mi svelio nela baraca, pussa di merda quando lavoro in tera, pussa quando torno e non ho acqua per lavari. Pussa pure quando sono stanco e mi svelio ubriaco e sporco ancora di mio vomito.”
Gaz, 21 anni, è un bracciante stagionale che attualmente lavora nelle campagne della Capitanata, insieme a Ibrahim. La sua storia, identica a quella di tanti altri, si perde nei rivoli dell’irregolarità.
Li incontro a Borgo Mezzanone, in provincia di Foggia. Faranno insieme un pezzo di tragitto fino a Cerignola. Si sono conosciuti sul lavoro. Ibrahim con la sua voglia di riscatto e Gaz, con la sua paventata indifferenza alla vita, si attraggono per le loro reciproche diversità.
“Quello non gli frega mai nienti,” mi aveva raccontato Ibrahim. “Se padrone grida, quello non disce mai nienti. Ride, ride sempre. Gli altri di gruppo parlano con padrone per i soldi, quello no, mai. Non gli frega. Ogni tanto bestemmia e sembra arabbiato, ma succede quando beve tanto.”
Gaz è piuttosto tarchiato, quasi rozzo all’apparenza, ma i lineamenti del volto sono sottili. Gli occhi grigi quasi risplendono circondati dalle folte sopracciglia scure, eppure lo sguardo sembra vacuo, assente. È seduto su un muretto, con le gambe penzoloni, mentre sorseggia una birra in lattina. Appena mi vede, simula un gesto di saluto con la testa. Indossa un cappellino rosso, logoro, sul quale si intravede una scritta in nero: A.C. Milan.
“Sei tifoso del Milan?”, gli chiedo per rompere il ghiaccio.
“No, ho preso in spassatura. Non mi frega un casso di Milan. Non mi frega un casso di nienti” risponde secco.
Con questo rapido scambio, le presentazioni sono fatte.

QUANTO VALE IL TUO TEMPO?
La stagione dei pomodori è appena cominciata. Ben prima della raccolta, i braccianti vengono utilizzati nei campi per la preparazione della terra alla coltivazione intensiva. Il loro compito è quello di arare, pulire i terreni da residui ed eliminare tutte le erbacce infestanti. Solo a quel punto si può iniziare a piantare l’oro rosso di Puglia.
“Quando raccoli melio,” mi spiega Gaz, “pagano con cassone, e forse fai più soldi. Qua, invece, sempre piegato sula tera e non vedi soldi. Venti euro se lavoro otto ore. Vintiscinque se lavoro diesci. I negri, li pagano sempre di più. Ma tanto a me non mi frega un casso” aggiunge. E giù un’altra bestemmia.
“Ti pagano due euro e cinquanta ogni ora”, calcolo. “Tu, Ibrahim, quanto guadagni?”
“Ho fatto un patto col padrone, mi dà quattro euro ogni ora. Fanno trintadue o quaranti euro. Sono di più” commenta.
I proprietari dei terreni in cui lavorano Gaz e Ibrahim sono diversi. In totale, danno lavoro complessivamente a tredici braccianti. Sei, tra senegalesi e maliani, vengono dal ghetto Chitomeni. Altri otto sono di etnia slava, e vivono in baracche di fortuna stipate spesso in prossimità dei luoghi di lavoro. I gruppi di lavoro, invece, sono misti.
“Hai un contratto stagionale Gaz?”, provo a domandargli.
Mi guarda e sogghigna, arcigno. Poi rivolgendosi a Ibrahim aggiunge a voce alta: “È di polisia? Mi fai parlare con polisia?!”
“No, no stai tranchillo” prova a calmarlo Ibrahim. “Fa la journaliste. Per questo fa tante domande. Se tu non vuoi parlare, allora statti zitto.”
“Vuoi parlare con il zingaro giornalista?” esclama guardandomi. “Ci chiamate così, voi italiani. Rom, rom, rom! Tanto per voi siamo tuti uguali. Siamo tuti slavi di merda.” Ride, Gaz, con la sua bocca sgangherata. “Quanto vale tuo tempo, giornalista? No pirché mio non vale un casso.”
“Sai che parli bene l’italiano, Gaz?”, lo distraggo provando a interrompere una nuova serie di imprecazioni. “Da quanto tempo sei qui?”
“Io qui sono nato,” risponde secco.
“Qui a Foggia?”
“No, a Roma. In campo rom di Roma. Sono quasi tutti albanesi lì e mia mama m’ha chiamato Gaz.”
“La tua mamma non è albanese?”, lo incalzo.
“Lei viene di Kosovo”
“Quindi tu sei kosovaro” concludo.
“No, io non sono nienti. Mama scappata di Kosovo quando io ero in panscia.”
“E tuo padre?” tento.
Gaz fa uno scatto, secco. Si alza, accende una sigaretta da cui aspira nervosamente tre boccate di fila. Poi mi fissa con i suoi occhi grigi e dice: “Non ci sta il mio padre, non so dove sta, non so si è vivo o morto. Mio padre può esere tuti. Può esere anche papà tuo, eh. Italiani pure fano queste cose. Sono filio di tuti e non sono filio di nessuno. Sono un filio di putana.”

FIGLIO DI TUTTI E FIGLIO DI NESSUNO
Gaz è nato profugo. Figlio di una violenza sessuale, la sua vita è trascorsa in un campo rom della periferia sud romana. Della madre non vuol parlare. Mi racconta invece di Kirakina, la giovanissima ragazza che ha sposato quattro anni fa.
“Se non hai familia in campo rom, non sei nesuno. Alora, tu fai familia. Kira ha familia. Io le ho fatto fare bambino, così padre mi doveva fare sposare pir forsa. È nata Luna, mia filia, e dopo un anno io sposo Kira.”
“Dov’è la tua famiglia adesso?” gli chiedo.
“A Roma. Io lavoro, poi vado lì. Resto giusto tempo di fari altro bambino, poi lavoro ancora. Viro uomo fa così.”
“Kira aspetta un altro bambino?” lo guardo attonita.
“Sì. Speriamo chi è maschio, così poi lavora con me. Si è femina, è un altro casso di problema…” commenta.
“Che problema?!”
“Fa la putana. Come tute quele che non sono importanti in campo rom. Ecco pirché io lavoro. Ecco pirché mando qualchi soldi a Kira. Ma tanto so che tra poco tempo, capò di campo prende Luna e fa lavorare.”
È terrificante. Questa bambina ha davanti a sé un solido destino da prostituta di strada. E, quel che è peggio, Gaz sembra averlo accettato. Non mi guarda negli occhi, fissa la lattina semivuota di birra che ha davanti.
“Tu…” tento con un filo di voce “Tu… non puoi fare niente Gaz?”
“Sono un filio di putana, cosa devo fare?!” Ed ecco, esplodere la rabbia. Quella che Gaz faticosamente tenta ogni giorno di ricacciarsi in gola. “Si era maschio, veniva con me. Anche adeso, a cinque ani, poteva iniziari a fare qualchi cosa,” grida. “Ma femina con padre filio di putana, in campo rom, può fare solo putana. Allora, se non capisci questo, lascia perdere tuto.”
Butta via la cicca di sigaretta ormai consunta tra le dita gialle. Mormora qualcosa tra sé e sé mentre si allontana. Poi si rivolge di nuovo a Ibrahim e dice: “Finisco bira e andiamo.”

LA TRANSUMANZA AGRICOLA
Per i suoi 21 anni, Gaz è un bracciante stagionale con una certa esperienza. Non ha fissa dimora. I suoi movimenti seguono il flusso della domanda di lavoro occasionale. Ma nei campi, è un professionista. La sua capacità lavorativa, lungi dall’essere stabilita dalle abilità personali, è stata decisa a tavolino: troppo poco importante per occuparsi dei veri business del campo rom – prostituzione, droga – e talmente insignificante da non poter essere impiegato nemmeno nel settore dell’edilizia, la terra diviene la sua vocazione per necessità. Uno dei capi del campo, un certo Darian, stabilisce chi fa che cosa. Appartiene al ceppo familiare più importante, quello che gestisce il core-business del malaffare. Le altre famiglie, meno numerose e influenti, contribuiscono al consolidamento delle gerarchie di potere. Insieme gestiscono uomini, donne, bambini e mezzi assicurando la sopravvivenza della comunità. Ma Gaz, nella scala sociale del campo rom, vale quanto un paria.
Negli ultimi anni ha lavorato prevalentemente sulle piazze pugliesi e quelle siciliane. È stato in agro di Cassibile, nel siracusano, per la raccolta delle patate. “A novembre tu pianti, puoi metere anche fino a genaio. Poi raccoli verso marso. Prima a volte si raccolie limoni. Pero no a Casibile, ma simpre verso Siracusa.”
In Puglia, invece, le sue specialità sono la raccolta delle olive a Conversano, da ottobre a novembre, e l’oro rosso italiano: il pomodoro della Capitanata. “Oni tanto racolio pure asparigi, sempre verso Foggia. Ma dipende, se c’è tanto lavoro non prendo asparigi. Anche pirché a volte tu devi preparare tera. Mica puoi metere subito seme, no. Prima meti veleno. Poi dopo un po’ pulisci tuto, e metti nuovo seme. Funsiona così.”
“E chi vi dà il veleno da mettere sulla terra?” lo interrompo bruscamente.
“I capi, queli che ci fano lavorare. Ma oni tanto veleno lo metono i bambini. Prima c’era un posto qua vicino, c’erano un sacco di bulgari. Alcuni di loro bambini, oni tanto metevano veleno in tera. Funsiona così.”
Il ghetto bulgari di Borgo Mezzanone, quello a cui fa riferimento Gaz, è il campo familiare sgomberato e posto sotto sequestro dalla magistratura circa un anno fa. Tra le ipotesi formulate dagli inquirenti c’è il presumibile coinvolgimento, di alcuni abitanti del campo, nello smaltimento illecito di rifiuti tossici. Ripenso ai bambini del ghetto. L’ultima volta che li ho visti sguazzavano tra i cumuli di rifiuti, giocavano tra i copertoni bruciati, mangiavano dalle vecchie ciotole dei cani. Infanzie rubate, umanità corrotte.
“Con pummarol e olive ci stano poco più soldi, il resto nienti” conclude Gaz.
“Perché, quando guadagni con pomodori e olive?” mi informo.
“Prendi soldi con cassone, capisci? Si capò buono, paga pure tria euro per olive e due euro per pummarol. Ma tante volte non succede così. Adeso ci stano tanti di negri, loro pagano più soldi.”
“E qual è la differenza? Perché li pagano di più?”
“Pirchè negri lavorano tanto e melio. Non sono quasi mai ubriachi e poi sono tanti. Capò fa quelo che casso vuole, tu prendi la merda e vai avanti. Funsiona così” argomenta risoluto.

EPILOGO
I prezzi dei prodotti alla raccolta seguono oscillazioni variabili, perlopiù al ribasso. I limoni – ma dipende dalla cultivar e dall’area di provenienza – non superano in media i 0,40 euro al chilogrammo. Le patate siracusane sfiorano i 0,53 euro al chilogrammo. Le olive pugliesi da olio possono fruttare tra i 45 e i 60 euro al quintale, in funzione della resa annuale e della qualità del prodotto. Mentre i pomodori toccano mediamente i 0,45 euro al chilogrammo. Se il prezzo all’ingrosso si contrae e, per tutta risposta, quello al dettaglio s’impenna, la contrattazione al ribasso sulla capacità di lavoro dei braccianti non può stupire. Più basso è il prezzo alla raccolta, più bassa è la paga giornaliera. Quando c’è.
In più, la capillarità dell’azione delle agromafie in tutti i livelli della filiera – dalla produzione alla grande distribuzione – non facilita l’imprinting di meccanismi sani e alternativi.
Nel terzo rapporto della Flai Cgil su agromafie e caporalato viene citato un significativo studio – condotto in collaborazione dall’Associazione Bruno Trentin e dall’Istituto Tecnè – che attraverso una proiezione stima tra i 250 e i 290 miliardi di euro il valore dell’economia non osservata, derivata dalla somma tra economia sommersa, informale e dichiaratamente illegale.
“Il settore dell’agricoltura” si legge nel rapporto “è uno di quelli nel quale l’incidenza dell’economia sommersa e informale crea un danno tra i 2 e 5 miliardi di euro di risorse sottratte alla collettività. Dato, quest’ultimo, da mettere in correlazione con i dati forniti dalla Direzione Nazionale Antimafia (relazione DNA 2015) che quantifica in 12,5 miliardi di euro il fatturato delle agromafie. Ne emerge un quadro inquietante […] Sempre l’Associazione Bruno Trentin e Tecnè stimano in una forbice tra i 3 e i 3,8 milioni le persone con impiego irregolare, con un danno economico tra i 25 e i 35 miliardi di euro. Con le dovute proporzioni, applicando lo stesso metodo al settore agricolo, possiamo stimare un danno procurato dal lavoro irregolare (dunque caporalato, lavoro nero e grigio) tra i 3,3 e i 3,6 miliardi di euro.”
Il fenomeno è sostanzialmente multifattoriale e, in definitiva, molto complesso. I braccianti agricoli vengono reclutati da persone fisiche o imprese che spesso svolgono un’attività di intermediazione illecita. Gli intermediari – spesso cooperative definite nel rapporto sulle agromafie “senza terra” – sono caratterizzati dalla totale mancanza di correlazioni con attività agricole. Utilizzate per la costituzione di rapporti fittizi di lavoro agricolo “tali imprese, in molti casi dietro versamento di una somma di denaro, procurano l’iscrizione negli elenchi agricoli a un gran numero di soggetti che di fatto non esercitano l’attività di bracciante agricolo, ma che, grazie alle denunce presentate all’INPS (alla quasi totalità delle quali non corrisponde il versamento dei contributi), risultano titolati a richiedere e percepire prestazioni a sostegno del reddito da parte dell’Istituto (malattia, maternità, trattamento di disoccupazione).”
In più, se da un lato è evidente fino a che punto i lavoratori stranieri siano divenuti una parte imprescindibile della nostra agricoltura, i lunghi tentacoli dello sfruttamento in agricoltura non risparmiano certo i lavoratori italiani. In sostanza il caporalato, lungi dall’essere circoscritto entro confini etnici o razziali, è un fenomeno assolutamente trasversale. Corroborato dall’azione pervasiva delle agromafie, il caporalato si nutre della stagionalità e dell’informalità dei rapporti sia nella fase del reclutamento che in quella, successiva, della regolarizzazione. Attraverso la diffusa pratica del “contoterzismo”, specie nelle coltivazioni intensive, aziende e proprietari terrieri impossibilitati ad assumere in maniera diretta esternalizzano alcuni lavori a squadre di contoterzisti che li conducono con personale proprio, spesso irregolare. Il risultato finale è quello di una distorsione del mercato del lavoro che, una volta tramandati gli storici meccanismi di intermediazione illegale in agricoltura, ha finito col consolidare lo sfruttamento. Mentre gli schiavi vecchi e nuovi, con la schiena china e le braccia stanche, tengono ancora alto l’onore del made in Italy.

Emma Barbaro