Dal caporalato alla libertà: storie di ribellione e riscatto nelle campagne

tratto da Repubblica (leggi articolo originale)

Per otto mesi Lamine Bodian si è svegliato a Laureana di Borrello, vicino a Rosarno, in Calabria. Ha vissuto in una casa abbandonata, in campagna, senza luce né acqua. Ogni giorno ha raccolto mandarini e dopo aver finito ha percorso chilometri per andare a prendere venticinque litri d’acqua per poter bere e lavarsi. Non è nato lì. E’ senegalese. Se gli chiedi com’era la vita nei campi, dice: “Ci trattavano come cani, li chiamavamo padroni”. Come lui, Ibrahim, Suleman, Sidiki, ma anche Giuseppina, Paola e Abdullah che non ci sono più, sono stati servi dell’agricoltura: per mesi e mesi hanno raccolto arance e riempito cesti di pomodori per meno di 25 euro al giorno. Hanno sofferto nella via crucis del mondo agricolo, girando le terre e le stagioni in cerca di frutta e verdura da raccogliere. Fortunatamente alcuni di loro, non tutti purtroppo, sono riusciti a trovare un impiego normale grazie a diverse realtà nate negli ultimi anni per contrastare lo sfruttamento nei campi e il caporalato.
E questa è la storia di quegli ex braccianti delle campagne di Foggia e Nardò in Puglia, Rosarno in Calabria e nelle Langhe in Piemonte che hanno deciso ribellarsi dalle condizioni di lavoro opprimenti nelle quali vivevano. Continuano a lavorare la terra, ma non vengono più pagati a cottimo a seconda delle cassette raccolte, né sopravvivono in casupole fatiscenti e tende ammassate attorno ai margini delle città. Hanno deciso di creare qualcosa di diverso: associazioni e reti di distribuzione, preparano salse di pomodoro, producono formaggi, marmellate, miele, raccolgono agrumi e olive in autonomia e con contratti regolari, senza dover sottostare alle logiche di sfruttamento imposte dalla grande distribuzione organizzata.
Certo, tutto si può dire tranne che il caporalato a Rosarno sia storia passata: dopo otto anni dalla rivolta scoppiata nel 2010, i migranti africani vivono ancora come bestie nel ghetto di San Ferdinando, in condizioni igienico-sanitarie pessime. In quei territori, nella Piana di Gioia Tauro, da alcuni anni opera una delle prime esperienze di rivalsa dei braccianti: Sos Rosarno. Un progetto nato dalle assemblee all’ex Snia di Roma, in via Prenestina, con i ragazzi africani che lì avevano trovato ospitalità. Nei mesi successivi alla rivolta hanno cercato di creare un “altro mercato” e ci sono riusciti grazie al sodalizio con una decina di produttori calabresi. Oggi arance e olio vengono vendute a un prezzo giusto e alcuni di quei ragazzi sono tornati a Rosarno per lavorare con contratti regolari. La campagna, direttamente e indirettamente, dà risposta a 60 lavoratori – alcuni sono impiegati tutto l’anno, altri per circa tre mesi – e gli agrumi arrivano un po’ in tutta la penisola, grazie soprattutto alla grande rete dei Gruppi d’acquisto solidale che sostengono il progetto.
Col nascere di queste realtà è stata creata una rete più grande che le racchiude tutte. Fuori Mercato riunisce produttori agricoli, attivisti, migranti e italiani che dalla Sicilia alla periferia industriale di Milano hanno deciso di darsi delle regole comuni: autogestione, produzioni contadine e rispetto delle condizioni di lavoro sui campi e in fabbrica. In questo mercato alternativo dell’agroalimentare c’è anche una storia fatta di salse e schiumarole: Sfrutta Zero. Migliaia di vasetti portano questa etichetta e attraversano l’Italia, da Sud a Nord, scavalcando l’Appennino e percorrendo la pianura padana. Partono dalla Puglia – tra Nardò e Bari – e arrivano fino alle tavole del Trentino, ma quello che viene trasformato in passata non è un pomodoro qualunque. Dietro a questo progetto, infatti, c’è una straordinaria comunità di tipo cooperativo e mutualistico, in grado di sottrarsi alle multinazionali delle conserve. L’hanno fatta nascere due associazioni: Diritti a Sud e Solidaria. I protagonisti sono migranti, contadini, giovani precari e disoccupati che lavorano i campi stagionalmente con contratti regolari e paghe dignitose. Non hanno terreni di proprietà, li affittano stagionalmente insieme a van e trattori, piantano e coltivano il pomodoro senza utilizzare pesticidi o sostanze chimiche di alcun tipo, lo raccolgo, e poi lo portano alle aziende conserviere locali.
Spostandoci in Campania e Basilicata s’incontra Funky Tomato, la rete che si impegna a redistribuire il lavoro e combattere lo sfruttamento agricolo. Nasce nel 2015 per iniziativa di attivisti e persone impegnate sul territorio: una realtà diversa dalle altre, né una cooperativa né un’associazione, bensì una vera e propria filiera agricola. Si acquista tramite pre-finanziamento a partire da maggio quando viene avviata la campagna d’acquisto e le conserve arrivano a metà agosto, con i pomodori provenienti dalla zona del Vesuvio, Sarno e Oppido lucano. L’anno scorso ne sono state prodotte 150mila. Di questa filiera fanno parte tante piccole aziende agricole che accettano di produrre secondo i criteri contenuti nel disciplinare di Funky Tomato: agricoltura organica, capacità produttiva e tutela del lavoro, quest’ultimo un capitolo gestito direttamente dal consorzio. Molti migranti e alcuni italiani vengono assunti stagionalmente – per 40-50 giorni – tramite contratti di rete che stipula la filiera stessa. Un modo per arginare il fenomeno del caporalato.
La grande rete di Fuori Mercato ospita anche le olive di Nocellara del Belice, in Sicilia. Grandi, verdi, dal sapore fruttato e delicato, da settembre a dicembre vengono raccolte da centinaia di lavoratori, soprattutto migranti, costretti a vivere nel ghetto Erbe Bianche di Campobello di Mazara. Nel 2013, dopo la morte di un ragazzo bruciato vivo mentre cercava di accendere un fornello, sono nate le prime assemblee tra italiani e africani, organizzatisi poi con l’obiettivo di continuare a coltivare i campi. Poco dopo è nato ContadinAzione, dove oltre alle olive vengono prodotti pomodori secchi, olio e paté.
A differenza delle altre organizzazioni Rimaflow il cibo, oltre a produrlo, lo distribuisce. È una ex fabbrica di Trezzano sul Naviglio, comune dell’hinterland milanese, dove fino al 2012 si producevano tubi per condizionatori di auto e camion. Dopo la delocalizzazione dello stabilimento, gli operai licenziati – italiani e stranieri – hanno deciso di prenderla in autogestione e oggi funge da centro di distribuzione di alimenti soprattutto per Gas e spazi sociali, oltre ad avere al suo interno la Cittadella dell’altra economia dedicata all’artigianato. In quei capannoni arrivano prodotti che seguono la stessa filosofia delle realtà citate finora, utili a varie produzioni alimentari, come il Rimoncello (il limoncello prodotto con i limoni di Sos Rosarno), vari tipi di conserve e prodotti da forno.

Nonostante negli anni siano nate varie realtà come queste, l’emergenza legata allo sfruttamento dei lavoratori in agricoltura è tutt’altro che finita. Nell’ottobre 2016 il Parlamento italiano ha approvato la nuova legge sul caporalato, che prevede pene più severe per le aziende che si avvalgono dell’intermediazione illecita, e il Governo ha promesso maggiori controlli. Aspettando che la legge porti risultati concreti – se mai ce ne saranno – si spera che altri lavoratori si ribellino da condizioni d’impiego disumane. Come ha fatto Lamine in Calabria: “Continuavo a pensare: non sono uno schiavo e neppure i miei fratelli africani lo sono. Non ho più accettato di essere un cane”. E così da lavoratore della terra, sfruttato e vessato, prima ha lavorato con Sos Rosarno, poi è diventato un mediatore culturale lavorando nelle questure del Mezzogiorno. Ora è lui ad aiutare gli altri migranti in difficoltà.