Nei giorni del G7 che ha svolto i suoi lavori fra Bari e Matera, una lunga fila di trattori si è messa in marcia. Dalla periferia di Matera fino al centro di Altamura, al teatro Mercadante. Una lunga marcia in difesa del grano apulo-lucano promossa dai cerealicoltori (migliaia di imprenditori grandi e piccoli) che rappresentano da secoli una grossa fetta dell’economia della zona e che hanno forgiato nel tempo il suggestivo paesaggio di queste terre.
Al teatro Mercadante, per iniziativa della Rete dei comuni rurali e del Movimento Riscatto è stata approvata la Carta di Matera e Altamura dei principi in difesa del grano (alla presenza dell’assessore regionale all’agricoltura della Basilicata Luca Braia e del presidente della provincia di Matera Francesco De Giacomo, che hanno ribadito il sostegno delle istituzioni locali).
La Carta un vero e proprio decalogo per la difesa del frumento locale (in quest’area di decine e decine di migliaia di ettari a cereali si produce il 40% del grano duro nazionale) messo a punto nel corso di un forum di due giornate. Un forum che ha messo a confronto imprenditori agricoli, amministratori locali, tecnici e scienziati.
“La Carta di Matera non sarà – ha detto Gianni Fabbris, animatore del Movimento Riscatto – una semplice e un po’ accademica proclamazione di principi. Il nostro intendimento è farne un manifesto di lotta, lo strumento di un’iniziativa che porteremo nel cuore delle istituzioni, dal Parlamento nazionale all’Unione Europea.”
I cerealicoltori vogliono risposte dalla politica europea e da quella italiana per uscire da una crisi profonda che mette a repentaglio la stessa sopravvivenza delle imprese, strangolate dal prezzo internazionale del grano fissato nelle segrete stanze della Borsa di Chicago che quota il prodotto esclusivamente sulla base di regole finanziarie e di ragioni speculative che non tengono in nessun conto il suo valore intrinseco, la qualità e i costi vivi delle produzioni.
La politica – è stato affermato nel corso del dibattito – anziché contrastare la speculazione finanziaria, sembra volerla assecondare: la recente modifica del Don (che eleva il tasso di micotossina ammesso da 750 a 1750) unita all’abbattimento dei dazi, toglie in pratica ogni limite all’invasione del grano canadese. Che la vince – sia per ragioni di costo, sia per una predilezione degli industriali della trasformazione che trovano più agevole da un punto di vista tecnologico – sul grano duro apulo-lucano che pure ha un tasso di micotossina pari a “0”. Zero!! E questo fa la sua differenza sul piano della sicurezza alimentare.
“Magari – dice il Prof. Alberto Ritieni, chimico degli alimenti dell’Università Federico II di Napoli – un elevato tasso di micotossina non costituisce problema per un irlandese o un tedesco che consuma in capo all’anno poche centinaia di grammi di pasta. Ma si può dire lo stesso di un italiano che di pasta ne mangia mediamente un piatto al giorno?”.
Il consumo di pasta pro-capite – giova ricordarlo – in Italia è di 29 Kg/anno.
“Senza considerare – aggiunge il prof. Ritieni – che da noi la pasta la mangiano anche i bambini. E di certo sarebbe bene, cautelativamente, limitare l’ingestione di pasta ad alto tasso di micotossine almeno per i piccoli fino ai dieci anni”.
A lume di logica, quindi, l’ideale sarebbe promuovere su vasta scala il consumo di pasta confezionata con grano duro apulo lucano. Farebbe bene alla salute, farebbe bene all’imprenditoria agricola di quest’area e farebbe bene al made in Italy, che – almeno a parole – si propone di lanciare il prodotto pasta, che è nato in casa nostra, prodotto da una filiera al 100% italiana.
Sarebbe l’ideale. Ma non si può.
Non si può perché la zappa sui piedi ce la diamo da soli.
E qui entra in ballo la normativa nazionale. Una legge degli anni ’60, poi reiterata nel tempo e tuttora in vigore, vieta la pastificazione di grano duro a contenuto proteico inferiore a 10,5.
Il grano duro di queste parti che matura al sole non ha quest’abbondanza di proteine che si registra, invece, nel grano (molto più tossico) che si produce in Canada e in altre parti del mondo e della stessa Italia. E quindi scatta una sorta di “comma 22”. Sarebbe bello e salubre produrre pasta col grano coltivato nel meridione d’Italia, ma la legge non lo permette.
“ La legge, all’epoca della sua prima formulazione – dice il Dott. Vincenzo Tricarico tecnico del Molini Mininni – aveva una sua logica e una funzione positiva: facilitava la trasformazione da parte dell’industria che allo stato delle tecnologie lavorava più agevolmente i grani ad alto contenuto proteico e garantiva al consumatore un apporto proteico elevato, in una fase in cui i consumi di carne e altre proteine animali era – per ragioni economiche – ridotto. Oggi, il progresso tecnologico ha superato questa impasse. E d’altronde c’è davvero bisogno di tutte queste proteine nella dieta degli italiani?”
I pediatri e i medici presenti al Forum dicono di no. Nell’Italia di oggi, nella quale risuona l’allarme obesità, non ce n’è bisogno. E sulla stessa linea si è collocato anche Gianni Cavinato, Presidente Nazionale dell’Associazione Consumatori Utenti, il quale afferma che spendere qualche centesimo di più per garantirsi un’alimentazione più sana, fa risparmiare miliardi di euro al sistema sanitario.
La carta di Matera e Altamura, nata da questi intendimenti e su questi fondamenti, dunque, non è tanto un documento di rivendicazione degli interessi (legittimi) degli imprenditori cerealicoli, ma la base di un’alleanza forte da costruire fra i produttori e i cittadini-consumatori.