Etichettatura. Mappati 1mln di formaggi prodotti in Italia.

Lo scorso 19 aprile è entrato in vigore in Italia l’obbligo di indicare in etichetta, la provenienza e il luogo del confezionamento delle materie prime su tutte le etichette di latte e derivati, prodotti e commercializzati in Italia e destinati al mercato interno, con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del 19 gennaio 2017 del decreto sulla sua origine.

Il nuovo decreto riguarda latte a lunga conservazione e latticini e prevede l’indicazione del Paese di mungitura, seguito dal Paese di condizionamento (cioè quello dove viene fatto il trattamento termico, per il latte a lunga conservazione), o in alternativa il Paese di trasformazione (per latticini e altri prodotti).

Queste diciture possono essere sostituite, a seconda dei casi, da indicazioni territoriali d’origine più ampie, come:

  • “Miscela di latte di Paesi UE” (e/o “non UE” ) al posto del Paese di mungitura,
  • “Latte condizionato in Paesi UE” (e/o “non UE”),
  • “Latte trasformato in Paesi UE” (e/o “non UE”).

Quando le operazioni di mungitura e di condizionamento (o trasformazione per i latticini) avvengono in un unico Paese, è ammesso l’impiego di una sola scritta di sintesi, “origine del latte” seguita dal nome della nazione.

Il decreto prevede due deroghe, la prima si applica agli alimenti registrati in UE come Dop e Igp, nonché a quelli oggetto di certificazione biologica e la seconda riguarda i prodotti alimentari legittimamente realizzati in UE, SEE (Spazio economico europeo) e in Turchia. Ne deriva che, ad esempio, non si potrà pretendere l’indicazione d’origine del latte su uno yogurt prodotto in Grecia, né su un formaggio Cheddar prodotto in Inghilterra.

Periodo transitorio ed efficacia temporale

L’origine del latte deve venire specificata in etichetta già a partire dal 19 aprile 2017. È fatto salvo un periodo transitorio per lo smaltimento delle scorte di formaggi e latticini stagionati o immessi sul mercato o etichettati prima di tale data, a condizione che i relativi prodotti siano commercializzati entro i 180 giorni successivi. Il decreto ha però caso un’efficacia temporale limitata, poiché cesserà la sua applicazione a decorrere dall’1 aprile 2019.

Con l’indicazione del paese di mungitura e di quello di condizionamento o trasformazione, viene scritto quindi, un nuovo capitolo nel rapporto di maggiore trasparenza tra produzione e consumo nel sistema agroalimentare.
Si tratta di un cambiamento fondamentale soprattutto per il mercato italiano dei formaggi, che vedeva sinora tutelata l’origine dei soli formaggi Dop e Igp, e che investirà, complessivamente, oltre un milione di tonnellate di formaggi italiani.
Secondo i dati di Ismea, infatti, il provvedimento consentirà al consumatore di conoscere l’origine delle materie prime di potenziali ulteriori 510.000 tonnellate di formaggi non Dop prodotti e commercializzati in Italia, che si aggiungeranno alle 513.000 tonnellate di formaggi già certificati.
Nell’ambito degli acquisti domestici di latte e derivati, i formaggi e i latticini costituiscono il 60% della spesa delle famiglie italiane, cui si aggiungono l’8% del latte fresco, il 13% del latte UHT, il 13% dello yogurt, il 2% della panna, e il 3% del burro.

L’origine obbligatoria, a ben vedere, era già stata stabilita per le confezioni di latte fresco, con decreto interministeriale del 27 maggio 2004, che rimane e resterà in vigore anche dopo la cessazione di efficacia del decreto attuale.

I punti oscuri del decreto e la questione ‘cagliate’.

All’interno del decreto sull’origine del latte rimane tuttavia irrisolta la questione delle “cagliate”  importate e utilizzate da molti caseifici per fare la mozzarella, che non dovranno essere la cui origine non dovrà essere indicata in etichetta. Se il decreto aumenta quindi senza dubbio la trasparenza, tralascia tuttavia un aspetto fondamentale, di particolare interesse per i consumatori di formaggi freschi a pasta filata ai quali non sarà consentito conoscere se  le cagliate congelate siano utilizzate o meno nella produzione di mozzarella o altri formaggi che utilizza. Nel decreto infatti, questo argomento viene deliberatamente trascurato nonostante siano, a tutt’oggi, importate enormi quantità di cagliate congelate da paesi del Nord ed Est Europa per produrre formaggi italiani.

D’altronde l’obbligo di menzione era già esclusa non solo nella circolare del 24 febbraio 2017 firmata dai ministri Maurizio Martina e Carlo Calenda ma anche nell’interpretazione che gli stessi organi di controllo e la magistratura prevedono nel giudizio sulle norme vigenti escludendone l’obbligo di inserirne la menzione nella lista degli ingredienti.Inoltre bisognerà tenere conto che il “Paese di trasformazione del latte” potrà coincidere, secondo i Ministeri, con il “Paese di origine del prodotto finito” cioè quello dove è avvenuta l’ultima trasformazione sostanziale non del latte, ma del prodotto. In altre parole il caseificio potrà utilizzare le cagliate estere per preparare il formaggio e indicare che la trasformazione é avvenuta in Italia, omettendo di comunicare che il latte è stato lavorato altrove per produrre la cagliata.

A quanto predisposto dalla nostra normativa infine, dobbiamo tener presente che c’è il rischio che il WTO costringa il governo italiano ad abrogare sia questo decreto, sia quello sull’origine del grano, a seguito del contenzioso messo in piedi da Stati Uniti e Canada. E l’ormai prossima ratifica del CETA dal Parlamento italiano non potrà che aggravare la situazione.

A questo stato di cose un altro importante aspetto, notevolmente trascurato, è l’indicazione precisa del luogo di provenienza del prodotto ossia che esso venga dalla vostra regione, dalla stessa provincia in cui vivete, o addirittura dal famigerato chilometro zero, non meriterà l’interesse del consumatore. E allora, ci si chiede in che modo va intesa questa paventata conquista dell’origine in etichetta.

L’unica nota realmente positiva del decreto dagli esiti incerti, è la sensibilizzazione dei consumatori, che si spera inizieranno a prediligere i prodotti di origine italiana. Se non altro, per salvare l’economia e l’occupazione nelle aree rurali, gli allevamenti e la sovranità alimentare.