Pubblicato su Avvenire (leggi articolo originale)
Gli agricoltori guadagnano poco. A dirlo non è un’organizzazione agricola, ma l’Ismea con Unioncamere. Ogni 100 euro sborsati dal consumatore finale per acquistare prodotti agricoli freschi, non soggetti quindi ad alcuna trasformazione industriale come nel caso degli ortofrutticoli, ai produttori rimangono solamente 22,50 euro. Ciò che avanza, finisce agli operatori all’ingrosso e al dettaglio (36 euro), oppure ad altri lungo la filiera come i fornitori di servizi tecnici e finanziari (oltre 25 euro), mentre circa 9 euro sono riconducibili alle imposte e oltre 8 euro finiscono all’estero a seguito dell’importazione di prodotti direttamente destinati al consumo. Ma non basta. Dei 22 euro che in teoria vanno al produttore agricolo, in realtà ne rimangono 1,8: il resto finisce in salari e ammortamenti vari. Ancora più squilibrata la situazione nel caso dei prodotti trasformati: sempre su 100 euro di spesa sostenuta dal consumatore, all’azienda agricola rimane un utile netto di 40 cent.
Si conferma – e si aggrava –, così uno schema di filiera che deve far pensare molto circa i disequilibri lungo la catena del valore dell’agricoltura nazionale. È evidente – lo confermano Ismea e Unioncamere –, come il mercato non riesca, da solo, a garantire margini adeguati alle imprese agricole, la cui redditività «risulta schiacciata degli operatori a valle (trade) e a monte (fornitori di mezzi tecnici e di servizi bancari e assicurativi)». E non basta, perché Ismea sottolinea anche come nell’ultimo decennio, «la presenza di vincoli strutturali, di inefficienze del sistema logistico e degli accresciuti costi energetici hanno determinato la lievitazione dei costi di produzione e di distribuzione, a scapito quasi sempre del reddito dei produttori, che rappresentano la parte contrattualmente più debole della catena». Si tratta di una condizione che in qualche modo deve essere superata e che si pone come una delle sfide, forse una delle più importanti, che il nuovo Governo si trova davanti. Probabilmente è per questo che il neoministro Maurizio Martina ha subito fatto appello a tutti gli attori del sistema per arrivare in tempi brevi a un piano di rilancio del comparto.
A spingere verso una strada di questo genere, sono anche i numeri di chiusura del 2013. Basta sapere che l’anno scorso sono state quasi 33mila le aziende agricole che hanno chiuso i battenti in Italia (il 4% in meno sul 2012), con un tasso di mortalità più elevato nelle aree del Nord Est (-5,5%). Nell’ultimo quinquennio si è registrata la perdita di quasi l’11% di aziende.
Si conferma – e si aggrava –, così uno schema di filiera che deve far pensare molto circa i disequilibri lungo la catena del valore dell’agricoltura nazionale. È evidente – lo confermano Ismea e Unioncamere –, come il mercato non riesca, da solo, a garantire margini adeguati alle imprese agricole, la cui redditività «risulta schiacciata degli operatori a valle (trade) e a monte (fornitori di mezzi tecnici e di servizi bancari e assicurativi)». E non basta, perché Ismea sottolinea anche come nell’ultimo decennio, «la presenza di vincoli strutturali, di inefficienze del sistema logistico e degli accresciuti costi energetici hanno determinato la lievitazione dei costi di produzione e di distribuzione, a scapito quasi sempre del reddito dei produttori, che rappresentano la parte contrattualmente più debole della catena». Si tratta di una condizione che in qualche modo deve essere superata e che si pone come una delle sfide, forse una delle più importanti, che il nuovo Governo si trova davanti. Probabilmente è per questo che il neoministro Maurizio Martina ha subito fatto appello a tutti gli attori del sistema per arrivare in tempi brevi a un piano di rilancio del comparto.
A spingere verso una strada di questo genere, sono anche i numeri di chiusura del 2013. Basta sapere che l’anno scorso sono state quasi 33mila le aziende agricole che hanno chiuso i battenti in Italia (il 4% in meno sul 2012), con un tasso di mortalità più elevato nelle aree del Nord Est (-5,5%). Nell’ultimo quinquennio si è registrata la perdita di quasi l’11% di aziende.