Dodici anni fa, a Genova nella mobilitazione contro il G8, un grande movimento si manifestò inaspettatamente per i più, alimentato dal lavoro quotidiano di innumerevoli realtà sociali, sindacali e civili che, fino ad allora, non avevano conosciuto gli onori delle cronache.
Noi c’eravamo e, anzi, proprio li alcune delle realtà contadine italiane si ritrovarono in nome della comune critica al modello agroalimentare dominante e decisero di dare vita al percorso che puntava alla fuoriuscita da quel modello come unica strada per salvare e rilanciare le nostre aree rurali. Quante volte negli anni che sono venuti abbiamo registrato l’urgenza e la giustezza dello sforzo che stavamo mettendo a base della nascita di Altragricoltura ed abbiamo colto lo straordinario valore di essere parte di un movimento mondiale tanto ampio perché tanto grandi erano le sue ragioni e quante volte abbiamo ritrovato i nostri contenuti, riflessioni, proposte, critiche assunti da tanta parte del dibattito che sarebbe venuto negli anni successivi. La capacità di quel movimento, nelle campagne e nelle città, di contaminare di contenuti e di obiettivi e di produrre senso è stata ed è ancora grande, a segnare di una battaglia vinta: quella del piano culturale e del senso delle parole.
Denunciavamo che, in Italia, entro dieci anni la metà delle nostre aziende agricole avrebbe chiuso per l’impatto del nostro sistema agrario con la globalizzazione e che avremmo pagato un costo sociale, economico e ambientale terribile. Con buona pace degli apologeti della modernità della competizione e del libero mercato che andavano girando le campagne osannando e invocando l’arrivo della globalizzazione dei mercati, siamo stati profeti non smentiti.
Siamo andati a Genova per dire al mondo che la globalizzazione neoliberista stava costruendo, nelle campagne e nelle città, la crisi economica, ambientale, di società e di democrazia. Quanto avevamo ragione!
Ci siamo trovati come reti contadine e insieme a tante altre realtà sociali per tessere il filo che permetteva al nostro impegno carsico e quotidiano di diventare forza capace di far valere le ragioni di chi non ha voce e declinare le parole che la politica non voleva pronunciare e ascoltare . Quante ragioni c’erano nel nostro ragionare e nelle nostra urla!
Abbiamo dovuto curare le offese e le ferite dei manganelli con cui siamo stati ripagati, abbiamo vegliato il corpo di Giuliano ammazzato dalla repressione autoritaria e passato la notte davanti alla Diaz a presidiare il diritto alla partecipazione contro chi cercava di farne scempio mentendo, tramando e giocando sulla manipolazione della verità. Quanto grande è stato l’oltraggio alla democrazia!
Siamo andati a Genova, ognuno di noi per motivi diversi, da strade diverse, e con prospettive diverse; ci siamo ritrovati uniti nel cammino e ci siamo ritrovati a condividere il comune giudizio della realtà e la consapevolezza che quei giorni stavano preparando gli anni che sarebbero venuti: anni di crisi sociale ed economica terribile, di restringimento della democrazia e di appiattimento della politica nella comune e subalterna accettazione del primato del mercato e delle sue leggi brutali. Leggi che i Governi di centro destra e di centro sinistra hanno interpretato con straordinaria efficienza fondando la propria forza proprio sui giorni di quella repressione che preparava la grande mistificazione che ne sarebbe stato lo sbocco più avanzato: il governo delle larghe intese fondato sull’esclusione della partecipazione e l’espulsione del pensiero critico in nome delle superiori necessità imposte proprio dalla crisi.
La notte della Diaz ha mostrato la codardia del potere impaurito delle nostre ragioni e del fatto che avevamo capito, ne avevamo svelato contenuti, trame, natura, obiettivi, interessi e, dunque, eravamo più consapevoli, più forti e più pericolosi.
Oggi siamo chiamati a dare senso alla forza delle nostre ragioni di soggetti sociali ed a farla diventare capace di cambiare i rapporti di forza politici per riaprire spazi alla democrazia.
Lo sappiamo, lo sentiamo, lo attendiamo ….. forse dovremmo recuperare il senso delle giornate di Genova, quella onesta voglia di provarci, di ritrovarsi, di lavorare su quello che ci unisce piuttosto che su quello che divide, di rifiutare la logica dei guru e della spettacolarizzazione per mettere in gioco il nostro lavoro e impegno quotidiano e farli valere.
Le giornate dopo la repressione di Genova, furono giorni in cui sentimmo salire il consenso e la simpatia di tanta parte dei cittadini italiani intorno al nostro impegno: non riuscirono a isolarci, anzi…. vennero i giorni delle grandi manifestazioni contro la guerra e la crisi, il referendum sull’acqua, delle molte vertenze condotte per i diritti e il territorio, di cui le realtà dell’impegno contadino furono protagoniste insieme a tante altre.
Oggi che, nonostante tutta la forza delle nostre resistenze e per diretta responsabilità delle forze politiche e di governo, il disastro sociale si è compiuto e siamo nel pieno della sua deflagrazione, dobbiamo avere piena la consapevolezza che siamo noi i portatori delle parole nuove per riscrivere il futuro e riprendersi il governo delle scelte.
Noi non siamo stati (e non siamo) solo quelli della critica al modello della globalizzazione neoliberista ma, anche, quelli delle proposte alternative. Beni comuni, Sovranità Alimentare, Partecipazione democratica, Lavoro e Democrazia Economica: dobbiamo sentire tutta la responsabilità di tradurre le nostre elaborazioni, riflessioni e proposte in strumenti concreti utili a cambiare i rapporti di forza con chi continua a fare il guardiano dell’esistente e il garante della continuità in nome del realismo della politica.
Di fronte al fallimento delle ricette del centro destra e del centro sinistra che hanno gestito gli anni del dopo Genova, il grande vuoto dello spazio della politica può essere riempito (e inevitabilmente lo sarà) in tanti modi. Può, per esempio, assumere le forme dell’autoritarismo, della falsa coscienza alimentata da demagogia e populismo o quella della costruzione delle alternative.
Le alternative al modello della globalizzazione agroalimentare che condanna alla morte le aziende agricole ed all’esclusione dal cibo per i consumatori si chiama Sovranità Alimentare ovvero il diritto di scegliere democraticamente chi nelle nostre campagne deve produrre il cibo ed a quali condizioni. Parole che le classi dirigenti attuali non vogliono assumere (le capiscano o meno) e che noi, al contrario, siamo chiamati a far valore perché sappiamo che questo è l’interesse generale del Paese e dei nostri cittadini. Se per questo obiettivo non abbiamo alternative che mandare a casa la classe dirigente e di governo (quella politica e sindacale), dovremo assumerci le nostre responsabilità ricercando le migliori condizioni di relazione con i tanti altri soggetti sociali in campo.
Del resto, gli interessi che si coalizzano nell’imporre il modello agroalimentare dominante della crisi sono parte di quanti fondano sulle privatizzazioni, la finanziarizzazione dell’economia e lo svuotamento delle funzioni delle democrazie nazionali il proprio potere, che producono guasti non solo agli agricoltori ma all’intero corpo sociale del Paese e che hanno tutto l’interesse a tenere la crisi aperta il più a lungo possibile perché questo modello assicura loro grandi accumulazioni di rendite e ricchezze mentre scarica sul resto dei cittadini i costi. Interessi politicamente sostenuti da quanti teorizzano l’ideologia neoliberista declinandola con accenti e flebili sfumature di “destra” e di “sinistra” e che continuano a governare con l’unico obiettivo di tenere inalterati gli equilibri di potere. Vincere la scommessa per il futuro, inevitabilmente, significa avere l’onestà di guardare questo quadro ed agire conseguentemente prendendosi la responsabilità di dare senso alle nostre parole gridate in tanti luoghi e momenti.
In fondo abbiamo bisogno di tornare allo spirito delle giornate di Genova del 2001, anche se ora abbiamo bisogno di giocare una partita nuova: quella della politica.