Era il 1981 quando in Val d’Agri fu realizzato il primo pozzo esplorativo dell’era “moderna”, dopo anni d’intense ricerche petrolifere sul territorio. Ma la corsa all’oro nero in regione è iniziata da quasi un secolo. Che ci fosse il petrolio si è sempre saputo. Il senatore a vita e più volte ministro della Repubblica, Emilio Colombo, raccontava che, mentre percorreva a dorso di mulo l’alta Val d’Agri per la campagna elettorale del 1946, i montanari con fare circospetto gli mostrarono una meraviglia nascosta presso Tramutola: “una ferita della terra da cui colava un olio scuro. Anni dopo, quand’ero sottosegretario all’Agricoltura, me ne ricordai e avvertii Mattei. L’Agip fece le sue ricerche ma non trovò nulla. Poi negli anni Ottanta lo trovarono, ma se n’è parlato poco”.
Furono quelli gli anni in cui la Basilicata scelse di legare il suo sviluppo al petrolio della Val d’Agri, attualmente il più grande giacimento petrolifero d’Europa su terraferma.
Proprio con i facili entusiasmi di allora, si arrivò a paragonare la Val d’Agri al Texas perché in questo splendido territorio per lo più protetto (Parco Nazionale dell’Appennino Lucano Val d’Agri-Lagonegrese) alcune compagnie con in prima fila l’Eni, avevano scoperto e coltivato giacimenti di petrolio oscurando per buona parte di questo stesso arco temporale quanto l’ambiente incontaminato della valle, ricca d’acqua, di sorgenti, di paesaggi mozzafiato andava pagando in termini di compromissione delle risorse, di industrial pollution, di estinzione delle specie animali e vegetali, di declino della biodiversità e via dicendo, provocando inquinamento dell’acqua, della terra e dell’aria.
Da quel primo pozzo, ormai non più in produzione, tanti altri sono stati realizzati in lungo e largo per la valle, in aree protette, vicino a fiumi, dighe, sorgenti, aziende agricole, alberghi e centri abitati.
Quando fu scoperto il petrolio in Basilicata ci furono grandi festeggiamenti. Pareva che sulla regione dai due nomi fosse piovuta la manna dal cielo (e un po’ su tutto il nostro Paese…). La quantità di “oro nero” estratta non è un’enormità ma non è neanche poco: oltre l’80 per cento del greggio estratto in Italia e un po’ meno di un decimo del fabbisogno nazionale. Subito però iniziarono anche le polemiche da parte di chi vedeva nell’attività estrattiva solo gli aspetti negativi, principalmente di carattere ambientale, ma non solo (i campi di petrolio in pratica hanno danneggiato importanti attività agricole).
A Viggiano, in Basilicata, nel Centro Oli, dove la puzza perenne di zolfo viene avvertita a svariati km di distanza, mentre la notte è illuminata a giorno dalle fiamme fuoriuscenti dalla torre, alta fino a trenta metri, si consuma l’ennesimo delitto contro l’ambiente e contro le popolazioni della zona. E pensare che il centro oli ricade nell’area chiamata “Le Vigne” nota da sempre per le coltivazioni vitivinicole. Una volta le Vigne erano giardini, oggi sono distese incolte e cimiteri di viti estirpate. Quelli che una volta erano contadini dal cervello fino ora sono persone demotivate in attesa di ricevere una buona e convincente offerta per coltivare il sogno di diventare “petrolieri”. È tempo di trebbiatura del grano ed è un’ottima annata: si producono 30 quintali per ettaro, ma non bastano a coprire le spese vive, considerato che se si è fortunati si venderà a 18 euro al quintale. L’uva, quando si vende, costa 70 euro al quintale, olive un po’ meno, per non parlare delle aleatorie coltivazioni e quotazioni di ortaggi vari, che hanno mandato sul lastrico tantissimi imprenditori agricoli. E allora, come dargli torto? 2000 euro al mese per sole 12 ore di lavoro su un pozzo di petrolio in cambio della promessa di lasciare che i giardini diventino campi deserti. Del resto, quando li guadagnerebbero coltivando grano duro? Ma non è possibile che si dimentichi la vocazione di queste terre, di questi giardini.
L’area della Val d’Agri è da sempre caratterizzata da un’attività prevalente agricola. La sua economia, fino a qualche decennio fa basata prevalentemente sull’attività agricola e forestale, è oggi fortemente integrata e con un settore primario ancora strategico per gli scenari di sviluppo dell’area.
Nel bene o nel male negli ultimi anni la società valligiana è riuscita a sopravvivere senza miti sociali (ed è riuscita a farlo bene anche per molto tempo prima di tali anni).
Nel suo complesso è rimasta a tratti profondamente depressa dimostrando non in grado di generare, o solo di fare proprio, un “mitologema” creato da altri.
Nessuna idea, nessun progetto sociale, nessuna visione idealizzata del “futuro desiderato” per la Valle è riuscita a trasformarsi in un fattore in grado di generare un ottimismo sociale e personale sufficientemente massiccio con la volontà di partecipare al processo di sviluppo che vedeva coinvolta l’intera regione.
Attualmente, il mondo agricolo si sta allontanando molto dalla vita e dalla percezione dei giovani valligiani: il mestiere dell’agricoltore è poco conosciuto, e raramente viene preso in considerazione come opzione per il futuro. Eppure l’agricoltura è un’attività le cui ricadute si manifestano a livello ambientale, sociale, sanitario. E’ importante che i giovani riescano a interpretare la complessità del mondo in cui vivono, a riconoscere le connessioni tra sviluppo, salute, inquinamento ambientale, globalizzazione degli stili di vita, educazione alimentare, partendo da considerazioni su qualcosa che ci riguarda tutti molto da vicino: il consumo quotidiano di cibo.
La situazione agricola della valle mi preoccupa e non poco. Difficile prevedere cosa accadrà nei prossimi anni. L’unica certezza che mi rimane è l’incertezza del domani!….
La scoperta del petrolio, nelle viscere di terreni argillosi, franosi, geologicamente instabili come quelli della Basilicata, avrebbe potuto rivelarsi la svolta vincente per arricchire la Regione o, piuttosto, rappresentare il rischio concreto di impoverirla ulteriormente.
Io che abito nella valle, Rockfeller e sceicchi, di ricchezza e sviluppo, dalle nostre parti, non se ne sono ancora visti. L’unico dato certo è che la valle si sta spopolando e la tanto auspicata crescita si fa attendere più del previsto. Chi aveva visto uno sviluppo legato esclusivamente al petrolio si deve ricredere: disoccupazione, indice di vecchiaia, indici socio-economici da terzo mondo dovrebbero essere dati “certi” sufficienti a rivedere la posizione iniziale.
Purtroppo, questo sono dati “certi” e che sta, di “certo”, segnando il destino della Val d’Agri!
La potenza economica dell’industria petrolifera è talmente grande, grazie ai suoi capitali e la manipolazione della politica e dell’informazione, che riesce a screditare e perfino ridicolizzare ogni forma di protesta e a smontare le posizioni avverse. Molto spesso l’industria petrolifera danneggia gravemente o distrugge le industrie del turismo e dell’agricoltura, ma l’arrogantissima industria petrolifera percepisce che tutto gli è dovuto, e non si cura affatto né si vuole responsabilizzare dei danni causati all’ambiente. I suoi “servi” economisti, ingegneri, giornalisti, politici, militari, tutti quanti prezzolati a dovere, sono pronti ad assecondarla servendosi del meccanismi della distrazione, del minimizzare, del negare l’evidenza lampante, dell’intimidire, dell’uccidere, anche solo psicologicamente mediante l’emarginazione dei contrari, coloro che si battono sulla base di dati “probabili”, non certi.
Certo è che continuando così, si ha la sensazione che ci siano pezzi di territorio senza futuro e, di conseguenza, pezzi di agricoltura senza futuro, e , soprattutto, pezzi di storia senza più futuro. Che fine faranno i piccoli comuni della Valle e delle aree interne della nostra regione che hanno fatto la storia di questa regione nei secoli scorsi?
Che fine ha fatto la questione agraria che si intrecciava e caratterizzava la più complessa questione meridionale?
Se è vero che estrarre petrolio è un sacrificio che ci viene richiesto dalla Nazione, un gesto patriottico, allora anche l’Italia dovrebbe farlo: salvare un settore in crisi, quello dell’agricoltura.
Se è vero che l’Italia è uno Stato democratico, dove uguaglianza e solidarietà civile sono alla base di una civiltà moderna di un paese avanzato, deve (o dovrebbe) tutelare la salute e i diritti di qualsiasi cittadino, sia del Sud che del Nord.
Ci chiediamo perché in Basilicata la democrazia e il diritto per tutti di curarsi o di studiare debba dipendere necessariamente dal petrolio, ovvero dalle royalties, mentre in altre regioni dove il petrolio non ce l’hanno, invece, è lo Stato a garantire tali diritti?
Se fossimo in un paese civile, di civile dovremmo fare una guerra, ma come ho più e più volte ripetuto, noi viviamo in una Nazione che non sa più, neanche cos’è il civile decoro.
Cosa rimane, nel dibattito odierno, delle lotte contadine, dei “cafoni” meridionali, della riforma agraria, dell’accesso alla terra? “si è fatto giorno”- scrisse mirabilmente Rocco Scotellaro, oltre sessant’anni fa, quando le condizioni dei contadini meridionali e lucani erano al limite della sopravvivenza. “Si è fatto di nuovo notte” – dovremmo scrivere oggi. Proprio perché si è spenta la luce sull’agricoltura lucana, settore vitale per tutta la regione.
Non si dica che questo è catastrofismo, questa è semplicemente la situazione catastrofica che noi stessi abbiamo creato. Questo è il catastrofico presente in cui noi (convinti e non) stiamo vivendo.
Mancando di dati certi, con altissima probabilità possiamo affermare che il petrolio non è infinito, quindi non può essere l’unica “certezza” a cui può far seguito un’inevitabile realtà economica: un’economia interamente ed esclusivamente basata sul petrolio non può crescere all’infinito. La mia convinzione resta quella che il petrolio è una risorsa solo di fronte al deserto. L’unica conclusione sensata a questo ragionamento è che dobbiamo cambiare e farlo in fretta. Non è più tempo per discussioni filosofiche, è tempo di prendere coscienza ed agire con risolutezza.
Non è un fatto personale, sotto questo aspetto non mi permetto di dare giudizi. È una questione di cultura politica, di prospettive, di credibilità e progettualità. Da quanti anni queste persone sono i protagonisti pubblici del nostro territorio e del futuro dei nostri giovani? Da quanti anni, sono loro a decidere in che direzione può e deve andare la Basilicata? I risultati quali sono stati? Mettendo da parte la macchina propagandistica pagata con i soldi pubblici da De Filippo e c., i dati veri documentati dai numeri, vedono la nostra regione sempre più povera, marginale e senza prospettive, senza, nemmeno, un disegno strategico che, almeno, ci farebbe sperare. Non c’è nulla. C’è il vuoto, ci sono solo promesse, proclami, annunci, clientele, favori, ricatti, scambi, sotterfugi, incarichi agli amici degli amici, dignità calpestate.
Purtroppo siamo costretti a convivere con un equilibrio di basso profilo generato dalla stessa debolezza del sistema, caratterizzato dalla logica delle cosiddette “convenienze relative”. Quali soggetti domineranno il nostro futuro? Gli intraprendenti o gli esigenti, i competenti o i raccomandati, gli onesti o i furbi, i meritevoli o gli anziani, i “certi” o i “probabili”?
Rocco Scotellaro commenterebbe: “ecco che uno si distrae al bivio, si perde. E chi gli dice “Prendi questa” e chi “Prendi quest’altra”. E uno resta là, stordito. Aspetta che le gambe si muovano da sole.
Io rilancio e aggiungo: Il petrolio non è compatibile con l’ambiente. O prendi l’uno o prendi l’altro. Devi scegliere, ma spesso sei costretto a scegliere il petrolio.
Ma se scegli il petrolio dovresti avere (o pretendere di avere) una contropartita sufficiente per risarcire le popolazioni che subiscono il danno.
Allora noi chiediamo 1000 euro al mese ad ogni contadino della Basilicata che accetta di rimanere per i prossimi 10 anni sul territorio come presidio permanente, che accetta di contribuire al ripristino ambientale, che si impegna ad azzerare il consumo di concimi, diserbanti e anticrittogamici chimici, che favorisce il ripopolamento di specie vegetali e animali in via di estinzione, che si impegna alla manutenzione di fossi e scoline, alla sistemazione di terreni acclivi, al fine di evitare frane ed erosioni.
Credo sia davvero ora di ritornare ad occuparci di loro. Noi pastori, figli di pastori, figli di contadini prima che imprenditori possiamo riprendere il cammino interrotto, la strada maestra, insieme e senza lotte clandestine, ma con intelligenza e connessione con il mondo.
Lo dobbiamo fare anche per difendere la professione più vecchia e importante al mondo, quella del contadino.
Ritengo la Basilicata una delle regioni più belle del nostro disgraziato Paese, con delle potenzialità incredibili. Penso ai paesaggi, alle risorse storiche, monumentali e quant’altro. Penso alle decine di ettari di terreni soggetti all’uso civico e abbandonati o depredati. Credo che vi siano ampie possibilità di realizzare centinaia di aziende agricole multifunzionali organizzate in cooperative di giovani disoccupati a vario livello qualificati. Penso ai medici, ai laureati in lettere, agli infermieri, ai cuochi, agli archeologi, ecc. Tutti a fare il proprio lavoro in aziende agricole che sono anche agricampeggi, fattorie sociali, fattorie didattiche, ecc. Ma che fanno i giovani in Lucania, aspettano? E chi?
Non aspettano nessuno, semplicemente vanno via. Quelli che restano o sono inconsapevoli o sono collusi con il sistema politico-sociale (che gli ha procurato un posto di lavoro e gli permette di comprare una macchina usata e uno smartphone, per loro è tutta la felicità possibile) oppure resistono. Resistono e scelgono di tornare, io parlo in prima persona a nome di Respirare Sinapsi (www.respiraresinapsi.altervista.org) ma potrei citare i ragazzi di OLA o I.T.A.C.A. Basilicata che lottano concretamente per la salvaguardia del territorio, producono informazione, video, vertenze e osservazioni ambientali in regione. Potrei citare i ragazzi di Casa Natural a Matera, che si sono inventati un nuovo modo di lavorare e di vivere, potrei fare mille esempi di associazioni e comitati che ci provano. Purtroppo sono la minoranza e non riescono effettivamente a fare rete come si dovrebbe. La maggioranza delle persone è in oblio succube di clientelismo e malapolitica. Le cose peggiorano con il passare del tempo. Ma qualcosa si muove. Qualcosa si muoverà!
caro Giuseppe sono d’accordo con te: la nostra regione ha delle potenzialità strordinarie con paesaggi e risorse infinite, ma che abbiamo sottovalutato facendocele maltrattare dalle estrazioni petrolifere. Basta pensare alla mia Val d’Agri. In linea di massima la Val d’Agri è caratterizzata da sempre da un’agricoltura a basso impatto ambientale e fino a qualche anno dall’assenza completa di grossi centri industriali, nonché caratterizzato dalla presenza delle riserve naturali e aree protette, dalla vicinanza dei Parchi Nazionali del Pollino e del Cilento, da un turismo integrato con l’ambiente, poteva ritenersi una zona in cui erano stati finora assenti le problematiche agroambientali che caratterizzavano altre aree ad agricoltura intensiva della Regione.
Ma il punto di forza dell’agricoltura dell’area era ed è rappresentato dalla qualità e dalla tipicità. Anche laddove le produzioni assumono una dimensione fisica di tutto rispetto, la salubrità dell’ambiente e le capacità imprenditoriali, consentono di conferire al prodotto caratteri di eccellenza. mi riferisco, ad esempio, al “mio” fagiolo di Sarconi che ha ottenuto il massimo riconoscimento di tipicità dall’Unione Europea (l’I.G.P.). Esiste inoltre una quantità rilevante di produzioni tipiche lavorate in loco a livello artigianale: i prodotti dell’allevamento ovicaprino (il canestrato di Moliterno, il cacioricotta, le carni di capretto e di agnello), bovino (la scamorza, il caciocavallo di podolica, i latticini in genere) e suino (famosi gli insaccati, il prosciutto di Marsicovetere, la soppressata, il capicollo, ecc.) e le mele della Val d’Agri. Completano il ricco paniere l’olio di Montemurro ed il vino Terre dell’Alta Val d’Agri DOC.
Tutti prodotti a cui è collegata una tradizione gastronomica che persiste nella maggior parte delle famiglie dell’area e che viene abilmente ripresa dalle trattorie tipiche e dalle aziende agrituristiche. in altre parole agricoltura che consente di sposare l’idea della multifunzionalità. Bisogna infatti effettuare una valutazione che non si concentri solo sugli aspetti meramente produttivi ma tenga conto anche di altri obiettivi che possono essere perseguiti con la salvaguardia del territorio: il mantenimento di attività economiche in zone marginali, la tutela di alcune biodiversità che sarebbero improponibili in zone agricole più produttive e la conservazione di un patrimonio culturale inestimabile. Tutti i cittadini lucani devono infatti sentirsi eredi di una grande ricchezza e allo stesso tempo custodi di quella che possiamo definire l’identità regionale. E ognuno dei prodotti tradizionali racchiude in sé una parte del DNA regionale.
La storia dei prodotti si sovrappone inevitabilmente a quella del nostro territorio.
Questa ricchezza, che viene dalla povertà, è la grande eredità che siamo chiamati a tramandare ai nostri figli.
Noi tutti dobbiamo sentire l’importanza di questa eredità; sentirne la responsabilità, ma allo stesso tempo esserne onorati. In effetti, la vera sfida che a livello regionale ci poniamo in quest’epoca di globalizzazione e di profondi mutamenti è quella di perseguire un modello di sviluppo che non snaturi la nostra identità. La competitività della nostra regione deve passare attraverso l’integrazione dei prodotti nel territorio.
E se la maggior parte dei prodotti non ha la dimensione economica per uscire dai confini nazionali, e spesso neanche regionali, questo non deve essere un limite ma deve essere uno stimolo a calibrare meglio la nostra attività promozionale facendo in modo di portare il turista là dove questi prodotti vengono ancora oggi ottenuti con le tecniche di una volta, di fargli conoscere quindi, insieme al prodotto, anche un territorio con tutto quello che esso racchiude in termini di ambiente, arte, cultura. Ultima considerazione: Il mondo agricolo, così come viene proposto anche dai bandi regionali (famosi primi insediamenti), attualmente appare molto distante dalla vita e dalla percezione dei giovani: il mestiere dell’agricoltore è poco conosciuto e raramente viene preso in considerazione come opzione per il futuro. quindi, spesso si preferisce emigrare piuttosto che “inventarsi” un lavoro a casa propria.
davvero 1000 euro al mese possono dare la felicita’? Nemmeno 10.000 euro la danno!
La strada di riprendere a fare i contadini credo anch’io sia l’unica giusta che possa far tornare la terra e l’uomo al benessere primordiale.
Bello l’articolo.Ben scritto.
cara Paola, 1000 euro al mese non daranno la “felicità” in senso assoluto, ma rappresentano una quantità di denaro tale, da consentire una vita, non diciamo da nababbi, ma abbastanza sicura e serena. Questa campagna in difesa dell’agricoltore (piccolo) della montagna e collina lucana parte da questo punto di domanda: perchè con i “proventi” del petrolio, le famose royalties ( che alla lettera significa compensazioni ambientali), non aiutiamo i contadini che in questo momento sono in forte difficoltà? Perchè non aiutarli, visto che sono loro ad essere quelli maggiormente danneggiati dall’estrazione petrolifera? 1000 euro non sono tanti. Quel che conta, infatti, non è il cosiddetto valore o quantità nominale del denaro, ma il suo potere effettivo, costituito dalla quantità di beni e servizi che, con una certa quantità di denaro, puoi acquistare, la tranquillità che il contadino riesce ad avere un minimo per continuare a resistere. Altrimenti sarà spazzato via dall’onda lunga del petrolio.. purtroppo, secondo le previsioni, nei prossimi anni avremo solo grandissime aziende, mentre molti terreni saranno completamente abbandonati. Basta guardare i dati istat degli ultimi due censimenti per rendersi conto che ormai è in atto la “guerra” al piccolo agricoltore (per piccolo intendiamo aziende di 4-5 ettari nelle valli, in pianura, e 10-15 in montagna con 10-15 capi bovini o 80-100 pecore). Il settore agricolo, nel corso degli ultimi dieci anni, ha continuato a perdere importanza economica nonostante le cospicue somme stanziate per il settore. Il suo contributo alla formazione del reddito si è assestato su cifre molto basse, soprattutto nei comuni più sviluppati in ragione dell’elevata produttività dei fattori produttivi impiegati. Un peso relativamente maggiore dell’agricoltura si riscontra nei comuni dove vi è una forte tradizione e aziende con investimenti di capitali notevoli che non consente la scrematura piena delle sacche di marginalità produttiva presenti nelle campagne.
Il mondo agricolo, dunque, attualmente appare molto distante dalla vita e dalla percezione dei giovani: il mestiere dell’agricoltore è poco conosciuto, e raramente viene preso in considerazione come opzione per il futuro. Tutti vogliono il “posto” e con le regole e il clima che conosciamo tutti (come giustamente sottolineato da Nicola B) che determina un circolo vizioso perverso che rischia di soffocare, per gli altri settori produttivi, la ripresa del ciclo economico e di generare una minore produttività della spesa delle risorse stanziate dalla regione a valere sui fondi europei e sulle somme rivenienti dal programma operativo, strumento messo in atto con i soldi delle royalties del petrolio. Nel contempo, però, ci propone una sfida che abbiamo il dovere di cogliere per (ri)pensare lo sviluppo della nostra regione: l’agricoltura può, anzi deve, tornare ad essere l’architrave del nostro sistema economico e sociale, deve continuare ad essere quella chiave di volta su cui sono stati costruiti millenni di rapporti economici, sociali e culturali; deve riappropriarsi della sua ancestrale capacità nel disegnare il paesaggio rurale e tutelare l’ambiente naturale, che mai come oggi necessita di sentinelle vigili ed attente. È importante che i giovani riescano a interpretare la complessità del mondo in cui vivono, a riconoscere le connessioni tra sviluppo, salute, inquinamento ambientale, globalizzazione degli stili di vita, educazione alimentare, partendo da considerazioni su qualcosa che ci riguarda tutti molto da vicino: il consumo quotidiano di cibo. In definitiva, l’agricoltura deve ritornare ad essere una attività le cui ricadute si manifestano a livello ambientale, sociale, sanitario.
nell’Incontro promosso dal sottoscritto e da altri “innamorati” del mondo rurale, in programma il 29 p.v. a San Chirico Raparo: “seduti a terra sulla nostra terra” discuteremo anche di numeri, dove e come reperire i fondi necessari e quali sarebbero le ricadute sul territorio.
E già, i “dati certi”..
Peccato che si siano ben guardati dal permettere la “certezza” dei dati e delle responsabilità dell’inquinamento, omettendo di analizzare le matrici ambientali acqua, aria, suolo PRIMA dell’inizio dell’attività petrolifera in Basilicata, per poterli poi confrontare con i dati ottenuti qualche anno dopo, ed ottenere la CERTEZZA dei dati. Peccato..
i dati certi possono averli solo associazioni allineate con il partito regione…i nostri dati sono “poco certi” e in alcuni casi, procurano allarme ingiustificato. intanto il dato certo è che le aziende agricole chiudono tutti i giorni.
Sono pienamente d’accordo con ciò che leggo, aggiungerei, di un mio ricordo da bambina, e non solo, son cresciuta nella terra e vivo per la terra, la mia terra la ns Lucania, ci ha sfamati, ricca, umile e timida, solo calpestata da gente sbagliata . . . . . IO GRIDO di LEI e della sua esistenza, delle sue meraviglie da tutelare difendere diffondere e VALORIZZARE . . . . Salviamo il salvabile e che quei 1000 euro al mese servano a chi di agricoltura ci fa mangiare e vivere, a chi si alza la mattina di buon ora (COME ME) per andar ai campi a vedere sorgere il sole, con tanti sacrifici e sudore……………… io CI SONO . . Per la mia terra