La vicenda di Agitu Ideo Gudeta poteva diventare un mero fatto di cronaca, ed esaurirsi come al solito nelle polemiche, e nelle tante prese di posizione di questo o quel commentatore improvvisato tra le sfumature che come semplice fatto di cronaca sta proponendo.
E invece l’interesse per la figura della pastora etiope sta crescendo sempre di più. Un interesse genuino, e non semplice curiosità. La gente vuole capire cosa ha portato una giovane migrante senza un soldo in tasca a stabilire un collegamento tra ambienti geografici e socio-economici così distanti tra loro. La solidarietà concreta che si è sviluppata, poi, attraverso la sottoscrizione a sostegno dell’azienda di Agitu è andata ben oltre la semplice vicinanza emozionale per una storia maledetta. L’opinione pubblica ha scoperto in un colpo solo che i migranti non vengono da Marte, che l’allevamento estremo fa parte dell’economia di un territorio, che le capre esistono anche in Etiopia, e che il cibo giusto è una realtà più diffusa di quanto si creda o di quanto ci vogliono far credere le multinazionali della Grande distribuzione.
L’opinione pubblica ha scoperto che l’amore e la dedizione per quello che si fa è parte integrante del cibo giusto. E che il legame tra produttori e fruitori è la chiave per dare maggior forza alla nostra salute.
Un lavoro duro, quello di Agitu, svolto con energia e sorrisi prima in Val di Gresta e poi nella Valle dei Mocheni. Ha valorizzato la biodiversità; il recupero dei beni comuni (la sua azienda ha trovato “casa” negli edifici di un ex asilo); e l’offerta di lavoro, restituendo integrazione (con lei lavoravano due richiedenti asilo).
L’opinione pubblica ha scoperto il cibo etico, che non è una categoria dello spirito o l’estrosità di una elite. Agitu prima di venire per la seconda volta in Italia lottava nel suo paese contro le multinazionali dell’agro-business che volevano espropriare ai contadini le loro terre. Agitu aveva visto in faccia il nemico. E una volta tornata in Italia invece di vendere le sue braccia nella raccolta dei pomodori o delle arance o in qualche stalla della provincia di Latina dove i migranti vengono uccisi se non stanno alle regole, ha preferito il percorso più duro dell’autoimprenditorialità. Ci sono state notti in cui ha dormito in auto per difendere il suo gregge dall’assalto degli animali predatori.
Il futuro del cibo o è etico oppure non è. E questo ha a che vedere con la crisi che sta attraversando l’agro-business costretta a difendere a spada tratta l’uso dei pesticidi, per esempio, oppure un modello di agricoltura intensiva che sta arrecando danni seri all’ambiente.
Solo il cibo etico può restituire integrità ai fruitori e quindi alla libertà reale di scelta.
Precipita qui tutta l’attualità del famoso slogan “il cibo non è una merce”. Già, ma allora se il cibo non è una merce, anzi nella forma della merce fa addirittura ammalare e avvelena l’ambiente, allora, cosa diavolo è? L’agro-business, che in qualche modo sta cercando di correre ai ripari attraverso etichette di eticità che lasciano molto a desiderare e sono in fondo solo una variante delle strategie di marketing, è chiaro che non riesce a rispondere a questa domanda. Non può farlo perché il suo ciclo è solidamente strutturato su tutt’altri parametri, quelli del profitto per lor signori e del compenso sempre più basso per i produttori; i parametri del cibo-spazzatura. Niente a che vedere con il cibo-territorio e il cibo-stagione, il cibo-comunità.
Se il cibo, infatti, non viene riconosciuto come proprio, ovvero mediato dalla cultura di appartenenza, non potrà mai diventare nutriente. Nutre ciò che riteniamo tuteli la nostra integrità. Nutrirsi è una scelta rispetto a ciò che sentiamo simile e coevo, e quindi salutare. L’organismo deve essere integro perché l’integrità è la base dell’autonomia. Ciò che rimane “altro” ed “estraneo” non nutre ma apre la strada al rifiuto, e al patologico. Ideo ci ha ricordato questa verità elementare riconnettendo i fili d’erba del territorio che l’ha accolta con la piazza del mercato cittadino dove vendeva i suoi prodotti. Senza questa continuità la sua impresa non avrebbe avuto senso. Un cibo-integrità che aiutava l’ambiente a recuperare la propria integrità.
Ma lo stesso ragionamento può essere preso anche da un altro punto di vista. Non c’è tutela ambientale senza amore per il territorio senza presidi che quel territorio lo curano, che investono sulla sua protezione. Non c’è valorizzazione del bene comune se non si trasmette un’attenzione diffusa e condivisa di generazione in generazione. Oggi tutto ciò non è retorica agreste ma, considerato l’abbandono di campagne, montagne e aree interne, un argomento di estrema attualità. La ripopolazione antropica di gran parte dei territori del nostro paese è un tema emergente. Ovviamente, non alle condizioni dei poteri forti: agro-business e grande distribuzione in testa. La realtà ci dice che vicende come quella di Agitu ce ne sono a migliaia in tutto il paese. La potenzialità è forte ma potremo perderla perché burocrazia, poteri economici prevalenti, criminalità organiz-zata ce la stanno mettendo tutta per fermare questa onda lunga. Sono tanti i giovani e le giovani ostacolati in tutti i modi. E’ questa la vera desertificazione che rischia il nostro paese. E’ anche per questo che va reclamata una riforma agraria senza se e senza ma.