editoriale del 07.05.2021 a cura di Katya Madio*
Tra gli obiettivi perseguiti ultimamente dal Ministro per l’Istruzione, Pancrazio Bianchi, c’è la volontà di utilizzare il periodo estivo “per costituire un nuovo inizio” con l’obiettivo di consentire a bambini e ragazzi di rafforzare gli apprendimenti e recuperare la socialità.
Racconta Eduardo Galeano, a quel tale che gli domandava a cosa servisse l’utopia, che l’utopia serve a camminare. Ci auguriamo che la scuola sia nuovamente messa al centro delle politiche di sviluppo per non ritrovarci sempre a parlarne per poi miseramente fare i conti con la realtà a ogni inizio di anno scolastico. L’utopia di noi educatori, infatti, noi che con la scuola, gli alunni, le famiglie ci rapportiamo ogni giorno, al di là dei proclami, è da sempre quella di cambiarla affinché, un luogo dove nella maggior parte dei casi la noia e le frustrazioni la fanno da padrone e dove si impara non per il gusto di farlo ma per far contenti genitori ed educatori, diventi il luogo in cui la curiosità non si spiega pian piano per far posto a un progressivo disinteresse ma venga recuperata a supporto della scoperta e della conoscenza.
Il sogno è quello di costruire una scuola dove i bambini e le bambine vadano con piacere, dove si sentano ascoltati e crescano apprendendo quelle competenze che saranno utili nella vita, felicemente e umanamente. L’attenzione alla sola dimensione cognitiva è, infatti, troppo spesso una nota caratterizzante delle scuole di ogni ordine e grado. Le più grandi problematiche sono sempre terminare programmi, somministrare verifiche, classificare gli alunni attraverso un freddo e asettico voto. Pochi si domandano come stanno, cosa provano, cosa desiderano soprattutto in questo periodo di pandemia così drammatico che stiamo vivendo e che li obbliga ai continui black-out della DDI (Didattica Digitale Integrata, per chi ancora non la conoscesse) in tempi di lockdown.
In poche parole, per dirla con le parole del ministro: “recuperarne la socialità” senza aspettare l’estate!
Per capire come sia importante il ruolo dell’educatore nella formazione di giovani menti è possibile paragonare la sua figura a quella di un contadino. Quasi un secolo fa anche Marcel Jousse, un sacerdote ma anche un etnologo ed un antropologo, scriveva che il contadino è un rivoluzionario dell’educazione, o meglio è un maestro. Per Jousse anche il termine cultura proviene dal lavoro dei campi. E’ proprio il contadino, infatti, secondo Jousse, colui che coltiva, con i suoi riti, con la sua memoria, con il suo contatto immediato dell’esperienza della crescita e dello sviluppo ciò che va a coltivare. Il contadino canta la realtà e ne consente la trasmissione attraverso un linguaggio privo della iperstrutturazione moderna che imprigiona i concetti nella logica della sintassi. Il contadino parla attraverso la sconfinata memoria dei proverbi ed in essi racchiude la sintesi della conoscenza. Il contadino possiede gesti millenari, sempre gli stessi, perfetti per seminare, per tagliare, per raccogliere. Insomma quello del rapporto fra uomo-terra ed uomo-vita è uno dei temi che Jousse tratta in maniera realmente potente. Nella sua articolata riflessione in sintesi, chi sta a contatto con la terra diventa colui che educa, perché la terra dà nutrimento, non solo in senso materiale, ma permette di produrre frutti nella relazione che vi costruiamo.
Se facciamo quindi nostri i dettami Jousse e li estendiamo al nostro modo di concepire la scuola sentiamo il bisogno che essa si apra, si sdogani dal ruolo e dalla condizione di essere un servizio militare obbligatorio, garantendo un luogo in cui apprendere sia piacevole. L’educatore ha infatti, il compito, partendo dall’osservazione dei bisogni e degli interessi di ciascun bambino, di lavorare in maniera discreta sul contesto per facilitare il naturale. Per ritornare all’insegnamento di Marcel Jousse possiamo utilizzare la metafora della pianta e del buon contadino. Un seme contiene in se tutte le informazioni e le risorse che gli permetteranno di diventare una pianta robusta e rigogliosa. Un buon contadino sa che per ottenere buoni frutti dalle sue piante non deve tirarle o ingoffarle di medicinali per farle crescere più in fretta o dare più frutti. Un buon contadino sa che ciascuna pianta ha bisogno di un ambiente che gli è proprio, utilizza un certo tipo di terra, un quantitativo giusto di acqua, una determinata esposizione al sole. Un contadino sa che il riso vuole molta acqua e il pomodoro meno, che la zucchina ama terreni grassi e l’insalata si accontenta di tutto. Suo compito insomma è quello di conoscere ciascuna delle piante che possiede e creare un ambiente idoneo per ciascuna di esse, con tempi che gli sono propri. Il buon contadino sa bene che l’ingrediente più importante per avere un campo rigoglioso è l’amore.
Ecco il buon maestro, come il contadino, sa che ciascuna delle creature di cui si prende cura ha i suoi tempi e la sua individualità e per questo non si mette a giudicare o imporre un ritmo di crescita comune a tutti. Sa soprattutto che un bambino in un determinato momento può avere interessi e bisogni diversi, e per questo deve evitare di fare proposte che livellino tutti, cercando di creare situazioni che permettono a ciascuno di crescere seguendo il proprio unico e irripetibile percorso. Compito di un buon maestro è quello di amare i propri bambini finanche arrivando a dire no perché attraverso i no si dà loro la capacità di discernere ciò che è giusto da ciò che non lo è.
Questo per dire al Ministro che chi educa cerca un modo per veicolare la socialità ogni giorno, si pone domande su quale sia il tipo di apprendimento migliore per ogni alunno cercando di non lasciare indietro nessuno tuttavia, il sistema scolastico italiano non si adegua al cambiamento dei tempi. Ci troviamo di fronte a classi pollaio in cui l’inserimento dei ragazzi avviene ancora per età anagrafica che per i ragazzi stranieri, in modo particolare, o per coloro che hanno bisogno di altri tempi. è ‘la morte’ dell’apprendimento. Siamo cresciuti e continuiamo, sbagliando, ad esercitare in una scuola che pretende di trasferire competenze e informazioni attraverso un libro didattico e la mediazione del maestro. Il risultato è che gran parte di ciò che si pretende di trasmettere rimane per pochissimo tempo.
Sarebbe bello se recependo non solo il messaggio di Jousse ma anche il nuovo filone dell’outdoor educational affinchè cercassimo una ‘Scuola delle cose’ opponendola a una ‘Scuola dei libri’; una scuola dove si osserva, sperimenta, si apprendono i gesti che permettono la compenetrazione delle cose. Si tratta di un’immagine di per sé affascinante perché una scuola che va contro ogni forma di astrazione è una scuola che si oppone a quella che noi spesso consideriamo come ‘tradizionale’ e quindi…distante.
Distante da coloro che sono in apprendimento, dai ragazzi, una scuola che non si interessa alle loro domande, poco attenta alle loro sensibilità e che appiattisce la creatività. Parafrasando Jousse dunque, è necessario ridefinire il concetto di scuola affinché si parta da un lavoro attento verso una ricognizione dei processi e dei significati.
Ecco che nella storia che vi racconto il buon maestro viene descritto come un buon contadino, capace di riconoscere l’essenza di coloro che ha davanti, per rispettarla e renderle onore, consentendo a ciascuno di coltivare se stesso. Perché questo possa accadere bisogna avere consapevolezza della metodologia, disponibilità a restare in ricerca scrivendo e riscrivendo la propria storia in un dialogo continuo con ciò che la quotidianità dell’educare restituisce.
Ristrutturare gli spazi affiancando a quelli chiusi aree rurali, cortili, scegliendone di farne il proprio contesto privilegiato d’esperienza educativa posizionandoli in dialogo costante e disponibile alle provocazioni; processi indispensabili per raggiungere l’importante traguardo di restituire il mondo ai bambini e i bambini al mondo. In questo l’educazione all’aperto e naturale si manifesta ancor più in tutta la sua complessità del suo impegno pedagogico in cui maestri contadini o contadini maestri, passo dopo passo connettono i bambini con la natura e l’educazione con il mondo.
In un tempo non molto lontano i bambini erano padroni di cortili e giardini che diventavano il teatro di giochi e battaglie da cui si tornava con le ginocchia sbucciate, a scuola si andava da soli e a 13 anni si usciva. Oggi invece tra scuola, sport e attività è sempre tutto gestito da adulti. I bambini vengono così spinti all’omologazione e non all’espressione del proprio talento, trascorrono la loro vita rinchiusi in quattro mura perdendosi gran parte della ricchezza e della bellezza della vita nelle sue diverse forme, stanno perdendo alcune attitudini come la curiosità, la fantasia, l’autonomia, la creatività, vivono in un contesto iperprotetto in cui ci si cura del corpo e non dell’anima e soprattutto non ricevono la nostra fiducia. E’ in corso un adultizzazione dell’infanzia e una infantilizzazione dell’adolescenza e questa non è più l’età della trasgressione ma della delusione. Vi si arriva con aspettative elevatissime che rischiano di crollare.
L’individuo ha quindi necessità di tornare alle origini. Trascorrere la giornata all’aria aperta seguito da un gruppo di educatori in grado di rispettare e valorizzare l’individualità di ciascuno che non giudichi, ma che faccia sentire i ragazzi accompagnati in maniera empatica in un ambiente dove sia possibile esplorare, fare esperienze dirette, dibattere e riscoprirsi soggetto sociale…imparare nuovamente a stare con gli altri, suoi pari e non. Il bisogno di un’educazione con la natura è ogni giorno più pressante ed è un bisogno dell’intero pianeta. Il tempo dei bambini e dei ragazzi è quello della crescita, un tempo di lentezza durante il quale essi siano felici e si affaccino all’età adulta in maniera consapevole.
Diverse regioni italiane si stanno dirigendo sempre più nell’emanare regolamenti e normative che diano validità e riconoscimento all’outdoor education (l’educazione all’aperto), quindi la possibilità per tutti gli asili e le scuole di poter utilizzare come spazi educativi fattorie, parchi, riserve naturali, agriturismi, ecc.
Sono fiduciosa che ciò accada, affinché l’educazione in natura diventi sempre più diffusa, come accade ormai da tempo in diverse zone del mondo. Per altro essa è in linea con gli obiettivi tracciati dal ministero nelle Indicazioni Nazionali per il curricolo della scuola.
In un tempo storico in cui il coronavirus impera siamo costretti a ripensare agli spazi e al modo di insegnare, oggi più che mai. La scuola all’aperto potrebbe contribuire non poco offrendo un modello per l’istruzione in grado di garantire il distanziamento sociale in tempo di pandemia e potrebbe spingere genitori e insegnanti ad abbracciare l’educazione all’aperto, bypassando tutte le problematiche legate alle difficoltà di connessione mediante device soprattutto nelle aree rurali…insomma Ministro ci aiuti nel nostro lavoro di ogni giorno!
Bibliografia:
Marcel Jousse, Il contadino come maestro, a cura di A. Colimberti, Libreria Editrice Fiorentina, 2012
*docente di lettere negli istituti superiori di primo e secondo grado, coordinatore Centro Documentazione e Ricerca per la Sovranità Alimentare.
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