L’ambientalismo non si può nascondere. La transizione ecologica non è un gioco al ribasso.

a cura di Fabio Sebastiani*

L’agricoltura è importante oggi quanto lo era in passato? Dalle statistiche della FAO emerge che, all’inizio del nuovo millennio, 2,57 miliardi di persone dovevano la propria sussistenza all’agricoltura, alla caccia, alla pesca o alla selvicoltura; in questa cifra sono comprese le persone direttamente occupate in queste attività e le persone a loro carico, ossia il 42% di tutta la popolazione mondiale.

L’agricoltura è il fulcro dell’economia della maggior parte dei paesi in via di sviluppo. Nella storia sono rare le nazioni che hanno potuto sperimentare una rapida crescita economica accompagnata da una riduzione della povertà senza fare affidamento, prima o durante questo rapido sviluppo, sull’attività agricola. Le statistiche commerciali considerano l’agricoltura soltanto un’attività economica. L’agricoltura intesa come stile di vita, come patrimonio, come identità culturale, come antico patto con la natura, invece, non ha prezzo. Tra gli altri importanti contributi non monetari dell’agricoltura si annoverano la tutela degli habitat e dei paesaggi, la conservazione del suolo, la gestione dei bacini idrici, il sequestro di anidride carbonica e la protezione della biodiversità. L’agriturismo è diventato un’attività popolare in molti paesi industrializzati e in altrettanti paesi in via di sviluppo, poiché gli abitanti delle città sono in cerca di luoghi tranquilli e vogliono essere informati sulla provenienza del cibo che arriva sulle loro tavole.
Ma il ruolo forse più significativo dell’agricoltura è che essa rappresenta, per oltre 850 milioni di persone sottoalimentate, stanziate perlopiù nelle zone rurali, un mezzo per sfuggire alla fame. Queste persone infatti possono accedere al cibo soltanto se lo producono direttamente o se dispongono del denaro per poterlo acquistare. In poche parole questa è la fotografia della lotta dei contadini e degli agricoltori indiani.
Nel cambiamento climatico il settore agricolo ha una caratteristica unica: è sia parte del problema che della soluzione. Da un lato genera emissioni di gas serra, dall’altro può riassorbirle, soprattutto con un’appropriata gestione sostenibile, grazie all’attività di fotosintesi e alla biodiversità del suolo, rappresentando un importante distruttore di carbonio. Tutti gli altri settori (energia, edilizia, trasporti) possono impegnarsi per ridurre le proprie emissioni e farle tendere progressivamente a zero. Non hanno però la possibilità di sottrarre dall’atmosfera quell’eccesso di CO2 ormai già presente.
Tutto questo non sembra entrare nella cosiddetta transizione ecologica e il ruolo che l’agricoltura può rivestire. Si sta pensando a un’agricoltura costantemente orientata all’innovazione e alla digitalizzazione dei processi, promossa da manager e operatori agricoli dotati di una rilevante preparazione tecnologica e organizzativa nell’esercizio di un’attività moderna e sostenibile.
Non solo, tra le priorità indicate rientra infine la ricerca di una sempre maggiore integrazione delle filiere, secondo una logica in grado di superare l’ancora eccessiva frammentazione del tessuto imprenditoriale agricolo. In poche parole una agricoltura senza agricoltori. E’ evidente l’obiettivo di passare da reparto all’aperto dell’industria a semplice predicato del sistema finanziario che ormai domina sull’industria. Green è un titolo che farà schizzare il valore delle azioni. Niente di più. E chi darà l’etichetta green? I tecnocrati che ora guidano il sistema.

Digitalizzazione delle campagne, foreste urbane per mitigare l’inquinamento e smog in città, invasi nelle aree interne per risparmiare l’acqua, chimica verde e bioenergie per contrastare i cambiamenti climatici ed interventi specifici nei settori deficitari ed in difficoltà dai cereali all’allevamento fino all’olio di oliva. E’ a questo che si sta pensando. Si sta pensando a tutelare il modello di sviluppo dominante con qualche fiocco verde e qualche molecola di ossigeno in più.
La vera transizione ecologica andrebbe intesa come un accompagnamento al cambiamento perché cambiare modello di sviluppo è un gioco in cui si fanno vincitori e vinti. Convertire settori economici e produttivi, riqualificare e riallocare competenze e forza lavoro è un processo che va governato dalla politica e non lasciato alle sole forze del mercato o scaricato sulle spalle dei lavoratori da convertire.

Al centro di questa transizione dovrebbe esserci un rinnovato patto sociale per l’agricoltura, uno dei settori produttivi con il maggior impatto negativo sull’ambiente. Potenzialmente una sua riconversione agroecologica, infatti, potrebbe mitigare i cambiamenti climatici, ridurre l’erosione di biodiversità e anche migliorare i nostri rapporti con il cibo e l’alimentazione e, quindi, la salute pubblica.
Il modello non è difficile da scegliere, da anni ormai si parla di agricoltura biologica. Ma promuovere la transizione vuol dire capire che non basta aumentare la superficie a biologico per risolvere il problema (quindi, ad esempio, allocare più risorse ad ettaro agli agricoltori che si convertono al bio), allo stesso tempo va affrontato il nodo dell’elevato consumo di carne nei nostri sistemi alimentari, aumentato il consumo di legumi nelle diete e ridotto lo spreco. Insomma, come ci dice l’articolo “Strategies for feeding the world more sustainably with organic agriculture” pubblicato su Nature nel 2017, ci vuole un approccio olistico che attui un cambiamento radicale di sistema a livello economico, sociale, tecnico e culturale. Non è solo un problema di nuove tecnologie da adottare.

Il mondo ambientalista di fronte a Draghi sta via via scegliendo l’attesa. Tutte le dichiarazioni ci raccontano di un atteggiamento guardingo. Ci si sta posizionando ma senza tanti entusiasmi. E’ un atteggiamento pericoloso perché rischia di creare incomprensioni e ambiguità. Senza dimenticare che qualcuno, considerando le risorse in arrivo, potrebbe trattare sottobanco. Non può esserci ambiguità sulla transizione ecologica. Lo dice la lotta dei contadini indiani, guidati dal concetto di sovranità alimentare. Lo dice, meglio ancora, lo stato pietoso delle nostre aree interne. Non è con un sottile gioco di ingredienti chimici negli alimenti che si aiuta la transizione ecologica. Prima l’ambientalismo lo capisce e prima potremo aprire una nuova stagione di lotta e di rivendicazioni in difesa della terra.


*Direttore di Iafue perlaTerra