editoriale del 15 febbraio 2021 di Gianni Fabbris*
Se dovessi trovare una sola parola per descrivere la fase in cui siamo, sarebbe, senza dubbio, “sconfitta”. Il sostantivo “sconfitta” definisce l’esito infausto di una guerra, di uno scontro o un conflitto prevedendo, dunque, che ci sia qualcuno che possa vantare una vittoria.
Provando a guardare la nostra condizione dall’alto dello “zoom on” di una telecamera che fa marcia indietro restituendoci il nostro tempo con l’inquadratura da campo largo, la vedremmo chiaramente: sarebbe l’immagine di un campo di battaglia in cui è andata, e va, in scena lo scontro fra il capitalismo del nostro tempo (spietato nella sua barbarie predatoria) e la democrazia.
In quel campo un pugno di vincitori si aggira fra i corpi degli sconfitti per saccheggiarne i beni: la terra, l’acqua, l’energia, le vite, il lavoro, i diritti.
Sono pochi ma sono uniti, si muovono da vincitori; hanno imposto la loro egemonia culturale che si è fatta leggi, comportamenti, senso comune: il mercato, la finanza, la modernità sono i confini sociali dentro cui alimentare e riprodurre il loro dominio sul mondo.
Nel campo, anche gli sconfitti: i più, le moltitudini che pagano i prezzi sopportando e subendo le regole dell’esercito occupante. Forse, invero, non sono stati mai un esercito; sono piuttosto popolo anche se fra di loro ci sono tanti che hanno resistito e che resistono. Fra i prezzi che, anche loro come tutti gli altri, devono pagare vi è quello delle divisioni che il vincitore impone come metodo di controllo sociale.
Divisioni sociali, culturali, politiche, economiche come strumento e metodo del dominio che spacca continuamente i corpi sociali mettendoli uno contro l’altro sul piano politico per triturarli e riunificarli rendendo tutti “clienti del mercato”. Singoli e soli. Divisi, appunto.
I braccianti contro gli agricoltori, i pescatori isolati dagli altri produttori, gli ecologisti dagli imprenditori, i lavoratori migranti da quelli indigeni; i consumatori da tutti gli altri: divisi nella loro condizione di cittadini, negati come comunità ma uniti in fila alle casse della GdO.
La divisione come metodo di dominio del mondo che ha pervaso le coscienze e il senso comune e ci ha ricacciato tutti nelle pratiche inconsapevoli in cui abbiamo coltivato le tante resistenze che ci hanno permesso di arrivare fin qui.
Divisioni che subiamo e determiniamo non per averlo scelto ma perché non abbiamo un progetto comune in cui far vivere le nostre pratiche. Abbiamo resistito e resistiamo facendo cultura, sindacato, movimento, producendo, distribuendo, consumando ma lo facciamo ritagliando per ognuno di noi lo spazio che ci viene dalla capacità e dalla dimensione del nostro agire.
La prima assemblea dell’Alleanza Sociale per la Sovranità Alimentare lo ha reso evidente: camionisti, cuochi, sindacalisti, agricoltori, braccianti, ecologisti, donne, uomini, giovani di fronte al passaggio che la storia ci impone: capire come i nostri dialetti (quelli che si sono prodotti nella divisione) diventino lingua comune, Koiné collettiva.
Come, cioè, sia possibile opporre al nemico di tutti noi proposte e alternative che si nutrano di quel tanto di visione comune che ha vissuto nelle diverse esperienze: la democrazia, la giustizia, i diritti, i doveri collettivi, la tutela della vita e della natura, il lavoro, la ricerca della felicità.
Il cibo, la terra, l’aria, il mare, la vita, le energie sono le basi biologiche e materiali per scegliere il campo da cui provare a ripartire.
La Sovranità Alimentare diventa, cosi, il background comune, la lingua con cui scrivere un nuovo progetto di società da opporre al neoliberismo del nostro tempo ed al suo modello di dominio del mondo che ci impone la crisi come strumento permanente.
Mettere insieme le differenze per trasformare le divisioni con cui abbiamo pagato la sconfitta nella ricchezza del progetto nuovo è il primo obiettivo dell’Alleanza Sociale per la Sovranità Alimentare e, per farlo, non dobbiamo rinnegare i percorsi diversi che ci stanno portando a incontrarci. Anzi dobbiamo coltivare le nostre diversità e specificità che si sono determinate nell’aver fatto scelte difficili e dure in questi anni.
In fondo abbiamo tutti scelto di resistere sporcandoci le mani con la merda della crisi e, provando a trasformarla in letame fertile, lo abbiamo fatto ognuno nel proprio campo; comunque, lo abbiamo fatto e lo facciamo! Certo, ognuno ha pensato se stesso come l’aratore del campo, il protagonista di un “riscatto” tanto necessario quanto inconsistente e troppo spesso questo modo di pensarci ci ha costretti nel minoritarismo, nella testimonialità e nell’autoreferenzialità.
Scriveva Antonio Gramsci: “Tutti vogliono essere aratori della storia, avere parti attive. Nessuno vuol essere concio della storia. Ma può ararsi senza prima ingrassare la terra? Dunque, ci deve essere l’aratore ed il concio”.
Il concio è un tipo di letame misto di sterco animale e foglie ed è esattamente quello che siamo stati in tanti in questi anni: abbiamo mischiato le nostre foglie cadute sul campo della sconfitta con lo sterco sociale ed oggi siamo un miscuglio organico fermentato e vivo.
Quel letame fertile che siamo diventati oggi può essere sparso nel campo vuoto della politica. I partiti e i sindacati si ritraggono lasciando il campo vuoto fra la società e il governo. E’ il momento che in quel campo reso fertile dal letame che abbiamo contribuito a fermentare con le nostre resistenze siano sparsi i semi per il raccolto nuovo.
Nuovo, altra parola di cui dobbiamo riprenderci il significato, magari per contrapporlo a “modernità” ma questo è già parlare del futuro e dei frutti che ci aspettiamo. Per ora facciamo il passo che ci serve: seminiamo il campo con il miscuglio dei semi che ci vengono dalle nostre pratiche diverse.
Scopriremo, cosi, che dai nostri semi diversi e dal loro incrocio può nascere il progetto nuovo. Buon cammino all’Alleanza Sociale per la Sovranità Alimentare e benvenuti agli aratori consapevoli.
Venite con le vostre foglie e portatevi il letame con cui vi siete sporcati, ci sforzeremo di fare buon uso del concio che avremo prodotto insieme.