Le fonti archeologiche ci datano il primo utilizzo dello zafferano nelle caverne dell’Iraq. Se la prima testimonianza scritta dello zafferano è in un dizionario assiro di botanica, che viene datato durante il regno di Assurbanipal (668 – 633 a.C.), tante sono le fonti storiche: ne parlano Omero, Virgilio, Plinio, Ovidio; se ne parla anche nei papiri egiziani del II secolo a.C., nella Bibbia, nell’Iliade e se ne ha testimonianza in testi Tibetani del 400 a.c.. Isocrate si faceva profumare i guanciali prima di andare a dormire e le donne troiane profumavano i pavimenti dei loro templi.
Affascinante è la rappresentazione che ci restituisce un affresco a Cnosso che si sviluppa su due piani.
Al centro, una figura femminile centrale, quasi a grandezza naturale circondata da un paesaggio bucolico, colmo di zafferano. Davanti a lei una scimmia blu le offre una piccola quantità di stigmi di zafferano, presi nel cesto posto davanti a sé. Dietro la scimmia una donna sta guardando la scena mentre versa gli stigmi raccolti in un cesto. Dietro il grifone un’altra donna porta con sé un canestro con altri stimmi raccolti. Ancora, sotto: due giovani donne stanno raccogliendo gli stimmi e un’altra è interamente decorata con lo zafferano.
Se è evidente che il protagonista incontrastato è lo zafferano, non è certamente casuale l’iconografia dell’affresco: l’artista si concentra molto sullo stigma della pianta, il suo apparato produttivo rappresentando la relazione con le figure femminili e la divinità.
Femminilità ed eros sono anche al fondo del mito con cui i Greci rappresentano la nascita dello Zafferano. Si chiamava Crocus il bellissimo giovane che si innamorò di una dolcissima Ninfa di nome Smilace che, però, era la favorita del Dio Ermes. Non fu sufficiente per Crocus essere favorito degli Dei, il Nume per vendicarsi trasformò il giovane in un bulbo.
E’ il racconto di una storia d’amore che narra la nascita dello Zafferano (Crocus sativus) per una specie “addomesticata nella lunga selezione di millenni” dal lavoro dell’uomo e di cui si sono perse le tracce della pianta selvatica originale. Un bulbo che origina una pianta sterile “triploide”, ovvero la cui struttura genetica è incapace di generare semi fertili e la cui riproduzione è possibile solo per clonazione del bulbo madre. Insomma, la sopravvivenza di questa specie dai fiori bellissimi e dal cui stimma si ricava la droga tanto utile in cucina e dalle proprietà medicinali e coloranti straordinarie, dipende solo dalla coltivazione dell’uomo e da quanto “amore” e “attenzioni” le sarà riservato.
Una storia d’amore come quella che abbiamo ascoltato oggi raccontare a Radio Iafue da Fabio Cacciatore, giovane agricoltore che nell’azienda di famiglia al centro della Sicilia fra i monti Sicani, ha ripreso la tradizione del nonno che già produceva lo zafferano.
Una produzione biologica che non ha bisogno di capitali di investimento in macchinari e attrezature ma di tanto lavoro, tanta attenzione nel preparare il terreno, nel mantenerlo drenato, nel proteggere le piante dall’aggressione di funghi e animali predatori, nel raccogliere e preparare i fiori, nel selezionare ed estrarre lo zafferano.
Poi, tanto lavoro e tanta attenzione, per gestire l’annata agraria, l’ansia prima del raccolto che ti fa arrivare di notte sul campo quanto è ancora buio per assistere e valutare alla luce dei fari la qualità del raccolto e raccogliere prima che l’umidità del mattino comprometta la qualità del prodotto.
Tanta attenzione e tanta dedizione nel confezionare, selezionare e integrare le produzioni con l’apicoltore con le arnie nel campo vicino per produrre il miele di zafferano.
Tanta passione, tanto lavoro, tanto amore per il proprio lavoro e per un prodotto straordinario dalla storia antica da uno dei tanti giovani che si stanno impegnando nel lavorare la terra cercando di recuperare il senso “sociale” del gestire un ciclo economico, “accompagnando” i cicli naturali.
Fabio ha scelto di “fare il contadino” ed ha portato l’impegno e le scelte che offrono alla sua famiglia, che la terra la lavora da generazioni, l’alternativa ad essere ricacciata dai modelli dell’agricoltura produttivista e dunque, a finire nel vortice della crisi. Lo ha fatto recuperando una tradizione antica (lavora lo stesso campo su cui il nonno già coltivava lo zafferano) e innestandovi l’approccio “moderno” dell’impegno sociale: quello che lo porta a proporre ai fruitori del suo prodotto vie “consapevoli e motivate”, fino ad “adottare una zolla di zafferano”.
Una storia di passione per una pianta di cui è facile innamorarsi e di impegno che cerca di produrre ricchezza sociale, reddito e equilibrio ambientale come solo a chi lavora la terra può capitare.
Una bella storia quella che ho ascoltato su Iafue PerlaTerra oggi, la prima sullo zafferano di cui racconterò ancora recuperando i ricordi della mia presenza a San Gavino Monreale in Sardegna, uno dei posti straordinari in cui si produce Zafferano, dove i contadini ne lasciavano i petali colorati ai bordi dei campi per avvisare i pastori di “non passare con le greggi per non compromettere il campo” e dove le ragazze indossavano Su Lionzu, il fazzoletto con cui si coprivano il capo tinto con lo zafferano esattamente come facevano i Fenici
Gianni Fabbris