Sotto caporale. E sotto padrone.
E’ questa la vita dei braccianti indiani Sikh nell’Agro Pontino raccontata da Marco Omizzolo nel suo ultimo libro sulle agromafie italiane. Dieci anni spesi nel contrasto ad uno dei fenomeni più cruenti di questo paese, tra denunce, scioperi e soprattutto tra gli oppressi, sono il fulcro di una ricerca sociologica vissuta sulla propria pelle perché le storie di schiavitù colpissero nel profondo chi si fa abbindolare dal mercimonio elettorale del fenomeno migratorio e perché il velo greve della politica potesse essere squarciato.
Se ne è parlato a Sant’Anastasia (NA), grazie all’iniziativa de L’Orto Conviviale, Rete di Cittadinanza e Comunità e Altragricoltura, con l’autore (Omizzolo è anche giornalista d’inchiesta e Cavaliere della Repubblica nel corso della Presidenza Mattarella per la sua lotta all’agromafia), con Gianni Fabbris presidente dell’Alleanza per la Sovranità Alimentare, sindacalista e profondo conoscitore delle politiche agricole, e con Stefania Barca, ricercatrice di caratura internazionale in ecologia politica femminista presso l’Università di Coimbra: la campagna si è fatta soggetto di promozione sociale in una periferia urbanizzata culturalmente desertificata, riprendendosi la politica proprio nella sede di un Comune mortificato da tre commissariamenti consecutivi.
Il caporalato come strumento delle mafie – questa la tesi finale dei lavori – può essere sconfitto solo con una salda alleanza tra tutti i soggetti coinvolti nella filiera del cibo perché se è vero che nessuno è nato schiavo, tutti siamo stati resi schiavi da un’economia del disvalore che ha reso le persone, i loro corpi, macchine riproduttive del lavoro come della prole, stabilendo gerarchie in base alla razza, alla classe e al genere, devastando al contempo la natura e assoggettandola all’Uomo, maschile singolare.
Combattere il sistema neoliberista comporta, dunque, un compattamento delle forze in gioco e una riappropriazione del concetto di conflitto che, nell’era della pacificazione forzata di ogni dissenso, non può più rimanere esclusivo appannaggio dello Stato. Forme non violente di opposizione sono necessarie per riaffermare l’esercizio stesso della politica e per tornare a dare corpo al concetto di cittadinanza, quel viaggio mai compiuto di cui parla così bene Castoriadis. E’ per questo che gli agricoltori e soprattutto le contadine che nei sud del mondo e senza diritti provvedono a circa l’80% della produzione agricola, le comunità ri-educate a forme sane di mercato, i lavoratori della terra e ogni attore della trasformazione/ distribuzione del cibo, dovranno lavorare insieme non tanto alla costruzione di un nuovo soggetto (operazione che nell’era della desoggetivizzazione a largo spettro potrebbe essere fallimentare), ma ad una nuova pedagogia della terra che guardi all’ecologia come mezzo e al bene comune come fine. Destituire il presente, pezzo dopo pezzo, per darci un oggi e una giustizia.
E’ davvero un odore nuovo quello che si sente nell’aria, come sostiene Fabbris? A un anno dal ventennale di Genova, è ancora dalla terra che sale e si agita il movimento profondo della società? Dopo la deflagrazione delle lotte operaie e il genocidio culturale dei contadini, è dalle campagne che rinascerà l’onda del cambiamento?
Tutto ci dice di si. E saranno le donne contadine (femminile plurale), i soggetti marginalizzati dal potere e i corpi mutilati nell’onomatopea dei braccianti a smuovere le zolle tettoniche del sistema perché solo chi conosce le radici sa bene qual è il terreno migliore per la loro dimora. Ma quando è necessario, quando la pianta è irrimediabilmente malata, solo chi conosce le radici sa anche come reciderle.