Editoriale per Iafue Perlaterra del 1° luglio 2020
a firma di Miriam Corongiu e della Redazione di Terra Donne
La condizione delle donne in agricoltura è da sempre caratterizzata da sfruttamento e invisibilità, sfruttamento che non solo avviene nel proprio posto di lavoro, magari sotto il tallone del caporale di turno, ma anche nelle quattro mura domestiche a causa del pregiudizio culturale e del patriarcato.
Anche se oggi il quadro generale è cambiato, non si creda che le sfide dell’attuale modello economico e sociale dominante prevedano un ruolo molto più gratificante per chi declina la propria attività al femminile. L’agroindustria delinea un profilo basato su espropriazione e ricatto. Tutto nella rappresentazione gentile del politicamente corretto e del nascondimento di realtà scabrose agli occhi del consumatore.
Per le braccianti, a meno che non si prendano in considerazione i rarissimi casi di lavoro regolato da un contratto, la prospettiva è quello di sudare e non fiatare, quando di non dover sottostare al ricatto sessuale del padrone. Gli ultimi di qualsiasi altro settore vivono così, indipendentemente dalla propria professionalità e Senza che venga mai considerata la miriade di prestazioni invisibili che oggi infoltiscono l’ampio ventaglio del lavoro “di cura”. Sono compiti non retribuiti, eppure essenziali, che di fatto entrano a far parte della ricchezza di chi ha in mano le redini.
Per chi può contare su una qualche forma di imprenditorialità con tante virgolette di fatto c’è una situazione di superlavoro, caricato ancora di più dalle prestazioni casalinghe.
Oggi l’agricoltura, come decenni fa, stenta a dare peso e valore al lavoro femminile. Non c’è un quadro normativo adeguato a bilanciare la differenza del carico di lavoro e di tempo dedicato alla cura della comunità, della famiglia e della terra.
Eppure le donne in agricoltura hanno avuto un ruolo ben preciso. Basta citare, per esempio, le schiave che “tra i capelli”, come raccontano i manuali di storia, portavano i semi che poi, coltivati di nascosto, avrebbero dato il necessario sostentamento a tutta la famiglia e in alcuni casi anche alla comunità.
Un lavoro di cura, di difesa del cibo e dell’identità. Oggi che anche dal cibo, e dalla sua produzione, passa il discrimine tra un’agricoltura che tenta di riconciliarsi con l’ambiente e un modello di sviluppo basato sull’agroindustria che invece non fa altro che generare altro inquinamento, il ruolo delle donne è determinante.
Lo è per tanti aspetti, innanzitutto per il recupero di una visione armonica che rimetta al centro dell’economia il reale bisogno degli individui. Ciò vuol dire un diritto al cibo, alle risorse, in pari grado. Giustizia, quindi, e anche un modo per dare luogo a una pratica economica che produca beni in un contesto non di dominatori e di dominati.
Sono sempre più le donne associati in movimenti sociali che rivendicano orgogliosamente una autodeterminazione non fine a se stessa ma funzionale a ciò che realmente conta, almeno in agricoltura, la sovranità alimentare, una produzione rispettosa dell’ambiente, un patto di scambio relazionale, di senso, fiduciario tra produttori e consumatori in cui non tutto si esaurisca nel cosiddetto prezzo.
Insomma, la condizione della donna come luogo dalla cui lotta può nascere il valore del futuro. Valore, e valori, pieni di senso e di giustizia che sappiano mettere insieme la lunga storia di rigenerazione che accompagna la condizione femminile, la consapevolezza di una società che non può che nascere e rinascere dal confronto e risposte chiare alla sfide che il presente ci sta pure mettendo davanti, come l’emergenza delle pandemie, e che il pensiero maschile interpreta solo in termini militari e di potere.