Nel giorno in cui tra le tracce di maturità ve n’è una dedicata all’art. 3 della Costituzione: quello che recita che siamo tutti uguali senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali e, in cui ritorna come ogni anno la giornata mondiale del rifugiato, è forse lecito chiedersi se dobbiamo rimanere fiduciosi che si sappia reggere alla prova scritta così come a quella del tempo e che queste giornate di commemorazione così attese continuino ad avere un senso se poi, episodi come gli ultimi avvenuti in un paese come il nostro, l’Italia, o in America (dove bambini migranti sono rinchiusi in gabbie dopo essere stati separati dai propri genitori) rinnegano ogni presenza di diritto e innescano odio parlando alla maggior parte di noi, alle nostre paure e incertezze.
La giornata mondiale del rifugiato venne indetta dalle Nazioni Unite per commemorare l’approvazione nel 1951 della Convenzione relativa allo statuto dei rifugiati (Convention Relating to the Status of Refugees) da parte dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite.
L’obiettivo era quello di sensibilizzare l’opinione pubblica su una condizione, spesso oggetto di campagne diffamatorie e strumentali, che oggi coinvolge ben 70 milioni di rifugiati e richiedenti asilo nel mondo. Il numero più alto dall’approvazione della convenzione di Ginevra a oggi.
Una ricorrenza quindi che, alla luce di quanto sta accadendo rischia di essere quanto mai inopportuna e impone interrogativi che meritano risposte ed un atteggiamento non remissivo al cinismo.
Con gran dispiacere è possibile riconoscere, come sottolinea Pietro Bartolo, medico italiano, noto per essere, dal 1992, il responsabile delle prime visite a tutti i migranti che sbarcano a Lampedusa, che rispetto al 2017, non sono stati fatti significativi passi in avanti: “Proprio in occasione di questa ricorrenza lo scorso anno” dice Bartolo in un suo post di poche ore fa, “mettevo in evidenza i limiti delle operazioni internazionali di salvataggio che, per quanto degne di stima, non riescono ad impedire del tutto le morti in mare. Ad oggi, non possiamo dire che i naufragi siano cessati. Negli scorsi giorni 15 migranti hanno perso la vita nel nostro Mare e nessuno li ha recuperati. Invito tutti, dunque, a riflettere e scacciare l’indifferenza spesso, oggi, mostrata nei confronti del fenomeno delle migrazioni, o meglio nei confronti di chi lo vive sulla propria pelle. La giornata odierna dovrebbe rappresentare un momento di celebrazione dell’unione tra i popoli. Invece, a dispetto di tutti i tentativi compiuti allo scopo di migliorare la gestione dei flussi migratori, il 20 giugno è ancora per lo più, per chi crede nel valore del rispetto verso l’uomo in quanto tale, un giorno dominato dal ricordo di chi non ce l’ha fatta e dal rammarico per non aver saputo fare abbastanza.”
Oggi la parola di cui si abusa è, infatti, migrante, ‘clandestino’ ma cosa è un clandestino? E’ semplicemente un essere umano, sprovvisto di documenti, quei documenti che gli permettono di spostarsi, più o meno liberamente, nel mondo. Il cittadino comune, munito di regolare passaporto li ha tutti questi diritti e dispone anche di un modo ‘legale’ per muoversi. Il clandestino invece no, deve spostarsi perché è nato in un posto sbagliato e per farlo deve rischiare la vita.
Una persona ogni 110 costretta alla fuga. Nel numero totale sono inclusi 25,4 milioni di rifugiati che hanno lasciato il proprio Paese a causa di guerre e persecuzioni: 2,9 milioni in più rispetto al 2016 e l’aumento maggiore registrato in un solo anno (fonte: UNHCR). I richiedenti asilo che al 31 dicembre 2017 erano in attesa di una decisione in merito alla di protezione sono aumentati da circa 300.000 a 3,1 milioni. Le persone sfollate all’interno del proprio Paese rappresentano 40 milioni del totale. L’85% dei rifugiati risiede in Paesi in via di sviluppo, molti poverissimi e incapaci di offrire un sostegno adeguato.
Oggi in Italia sono ospitati circa 170 mila richiedenti asilo. Vivono in strutture temporanee, coordinate dalle prefetture, o in centri ordinari che rientrano nei sistemi Sprar dei Comuni. In un contesto come questo, nell’epoca della globalizzazione, l’immigrato, il clandestino è come uno specchio: vi riflettiamo la nostra mancanza di sicurezza, la nostra radicale sfiducia in un avvenire migliore per noi e i nostri figli, la precarietà del nostro status sociale e della nostra esistenza. Oggi abbiamo paura e della nostra paura si alimentano quelle forze politiche come le destre mentre dalla parte opposta, la sinistra alla paura ha ceduto.
L’Italia sta vivendo la sua ora più buia; è un paese che sta morendo, preda di una destra xenofoba e di un partito populista disorganizzato. Un paese così ha bisogno di nuova linfa, di nuovi cittadini: ne ha bisogno come l’aria.
In questi anni ci siamo trovati situazioni come quella della vicina Calabria o del nostro Metapontino, si sono alternati anni di politiche che hanno ritardato i nostri territori, le tante celebrate periferie sono scomparse dalle priorità, ricacciate in condizioni di impoverimento e sacrificio.
C’è una cultura che ha accompagnato il proliferare di norme di ghettizzazione legislativa e sociale quali la Bossi-Fini, la Turco-Napolitano dove il filo conduttore, l’elemento comune è la vulnerabilità che si orienta e deve essere ricercata nella persecuzione costante contro il migrante che viene ricattato trasformato in capro espiatorio, nel problema della società, perché se oggi non riusciamo più ad arrivare a fine mese, se oggi i giovani non studiano, non riescono più a trovare lavoro la colpa è di questa ‘caccia alle streghe’.
Sul campo dell’immigrazione la sinistra come la destra hanno quindi, avuto le stesse identiche politiche. Una sinistra non in grado di essere presente in quei luoghi, di dare dignità, prospettive e che approva norme come l’alternanza scuola-lavoro, come la Minniti-Orlando beh…è una sinistra che non c’è.
Eppure non tutto è perduto. Esistono oggi persone che come zefiro danno sollievo, rinfrancano e portano speranza.
E’ gente come Mimmo Lucano, che porta umanità a Riace, è la forza e il vigore di sindacalisti come Yvan Sagnet e Aboubakar Soumahoro, che prima di divenire avanguardie del movimento sindacale sono passati dal girone infermale dello schiavismo moderno che rappresentano quel fiume in piena da cui lasciarci trascinare. Perché se c’è assenza politica da una parte, se c’è un ministro sicuro del suo potere politico e mediatico, deciso a proseguire la sua campagna elettorale permanente sulla pelle dei migranti, dei ‘clandestini’, acclamato dalle platee televisive e virtuali, presenti sui social e trasformate in giurie popolari che giudicano e condannano, ci sono anche questi sindacalisti che difendono i fratelli e compagni di lotta nei campi del Sud, dove l’agroindustria scarica i costi della crisi e maggiormente che altrove si riflette la tirannide della GdO, delle mafie o degli sfruttatori.
Sono loro che in questi anni, combattendo le ingiustizie sociali, stanno facendo emergere un messaggio globale per cui “i braccianti sono braccianti a prescindere dal colore della pelle” e per i quali è necessario rompere ogni forma di ‘ghettizzazione’ realizzata dallo Stato.
Yvan, Aboubakar, Lucano, un tempo Giuseppe Di Vittorio, hanno cercato e cercano di ricostruire quella ‘giustizia sociale’ oggi inesistente dando voce a quei lavoratori invisibili, schiavizzati dalla globalizzazione. Cercano di ricostruire quell’alleanza nei luoghi delle contraddizioni sociali, mantenendo insieme soggetti sociali diversi, accompagnati da bisogni comuni, dalle periferie alle aree rurali, dalle città fino ai luoghi sperduti e dimenticati, affinché non entrino in competizione e guerra tra loro.
Il 23 giugno, ad esempio, a Reggio Calabria, Soumahoro e il suo sindacato organizzeranno una manifestazione per ricordare Saumayla Sacko, un esponente del sindacato USB ucciso dalla camorra nei giorni scorsi mentre cercava di realizzare un riparo per un altro lavoratore. Un evento a cui parteciperanno non solo braccianti ma anche le categorie più lacerate dal precariato e dallo sfruttamento perché l’obiettivo di Aboubakar è quello di immaginare un grande blocco sociale.
Sarebbe il caso quindi, che, a livello più alto, anche i rappresentanti istituzionali riprendessero a parlare di percorsi concreti lungo i quali la politica ha necessità di incamminarsi per poter risolvere problematiche e dare risposte.
Dare dignità ai lavoratori che lavorano dall’alba al tramonto, ‘da sole a sole’, a coloro che non hanno una casa, un tetto dove dormire…cosa mangiare, ai 7,3 milioni di italiani che vivono in condizioni di grave privazione e disagio economico, ai 2,7 milioni di loro che non sa neppure come sfamarsi e si rivolge alla Caritas, sono solo alcune delle questioni da affrontare.
Il Ministro del lavoro si dovrebbe esprimere rispetto a condizioni come sfruttamento, riduzione in schiavitù, caporalato, filiere malate, braccianti, non solo quelli migranti, perché là dove ci sono persone costrette a vivere nella miseria, i diritti dell’uomo saranno sempre violati indipendentemente dal colore della pelle.
Fino a quando non si entrerà realmente nel merito delle questioni il ruolo istituzionale rimarrà staccato dalle necessità della base sociale e rischierà di essere pura propaganda lanciata in pasto alla pancia di quella parte di società che si sente più arrabbiata, più abbandonata, lasciata in solitudine; quel pezzo di società per cui l’immigrazione rappresenta quella ‘caccia alle streghe’ contro cui scagliarsi e per la quale giornate come queste saranno pertanto da ritenersi quanto mai inutili.
Solo provando a invertire la rotta, solo tornando a pensare di non essere individui soli e isolati, che il futuro è un’impresa collettiva, immaginata da un insieme di persone e forze sociali che non hanno paura e che a volte ammettono di provare vergogna per quanto accade, potremo nuovamente imparare cosa significa fare politica e quanta importanza abbia per il bene comune.
katya madio