I contadini (P. Picasso, Contadini addormentati, 1919) e la schiavitù loro/nostra (Rocco Scotellaro).
Chi non conosce l’arte di Picasso (Malaga 1881- Mougins 1973).
E’ stato uno dei più grandi artisti del Novecento, il più influente e rivoluzionario dei pittori della storia dell’arte.
Da ‘bambino prodigio’ a inventore del Cubismo, Picasso ha attraversato diversi periodi pittorici, ognuno caratterizzato da una ricerca personale che lo ha portato a reinventare la sua arte ogni volta.
Tra i periodi pittorici più importanti del pittore andaluso vi è sicuramente il primo ventennio del XX secolo quando l’artista si trova a vivere il suo ‘periodo rosa’ facendo proprie le lezioni di grandi maestri come Cezanne, Ingres, Seurat, Rousseau, i manieristi italiani che lo condussero ad esiti di assoluta originalità e rinnovamento stilistico. E’ proprio durante questo periodo che egli ricerca l’elemento classicista e monumentale e i sui soggetti sono contraddistinti da singolarità cromatica e un monumentale accrescimento delle masse corporee che porta, inevitabilmente, ad una deformazione volumetrica.
Nell’opera: ‘I contadini addormentati (La siesta)’ quello che colpisce sono l’eros e l’abbandono dei corpi di due figure dormienti, calati nella calda solarità mediterranea di ambienti agresti tipicamente italiani, memorie di un viaggio che l’artista realizzò in Italia e che troverà posto in altre opere come l’Italiana.
Cromie ardenti e vivide, dunque, caratterizzate dal giallo squillante dei covoni di grano e dalle ‘gioiose’ vesti dei popolari contadini; colori che si vanno diradano via via verso il fondo nel lieve accenno di un casolare. Inutile dire che le masse cromatiche, i corpi scultorei e le diagonali che esse realizzano, hanno lo scopo di rapire lo sguardo dell’osservatore e di non permettergli di sfuggire a quel groviglio abbandonato e sereno.
Membra massicce e forti, rilassate nell’oblio del sonno, infatti, mostrano una donna procace e voluttuosa, che piano scivola e si abbandona nel corpo del compagno, il quale sovrastandola, le assicura protezione amorosa e intimità di sogni.
Contadini liberi che sono ritratti mentre vivono una complicità esistenziale che si afferma come tenera semplicità di essenze pure, simile, per certi aspetti, alla ricerca cantata dal poeta lucano Rocco Scotellaro (Tricarico 1923 – Portici 1953) nella poesia ‘Ho perduto la schiavitù contadina’.
Una poesia in cui appaiono chiari i riferimenti al mondo contadino: gli usi, i costumi le sofferenze. Così come non manca il confronto tra la campagna e la città; un confronto che rileva la solitudine malinconica ed assorta del poeta con la tendenza al trionfo, in termini d’amore, per la campagna natia e di condanna per la città, luogo d’esilio e di annullamento, di rifiuto, di esclusione.
Buongiorno, leggendo Rocco Scotellaro, poeta contadino lucano ….
Se la modernità promessa dal capitalismo è la barbarie della crisi del nostro tempo, delle guerre per risolverla, delle migrazioni senza alternativa, delle periferie urbane del non lavoro, del cibo senza storia e cultura, negato a tanti e rischio per molti, della scienza al servizio della speculazione e della finanza, di popoli espropriati di diritti e sovranità ….. la terra, difesa e curata, può essere il luogo di nuove comunità in cui riprendersi il diritto al lavoro, alla cultura, alla sovranità di scegliere e decidere. Rocco Scotellaro, poeta dei contadini lucani nel tempo in cui dispiegavano bandiere rosse, lottavano per le terre e partivano emigranti, non conosceva la globalizzazione neoliberista che sarebbe arrivata …. se oggi fosse qui sarebbe testimone delle nuove lotte per la terra del nostro tempo e darebbe colori e suoni nuovi e antichi alla nostra fame di bandiere. Quanto ne abbiamo bisogno, per non perdere il senso del cammino, tenere i piedi per terra e lo sguardo in alto! Globalizziamo la lotta, globalizziamo la speranza ….