E’ da poco trascorsa la giornata mondiale contro il razzismo che sulle nostre spiagge iniziano quelle che vengono da molto tempo ormai definite ‘ondate d’immigrati’.
Le parole sono importanti e l’uso che ne facciamo condiziona il nostro modo di comunicare con gli altri e soprattutto con noi stessi, impatta le nostre scelte, le nostre azioni e la percezione che abbiamo della realtà. Dunque non c’è motivo di dubitare dell’efficacia delle parole.
Prima di poter scrivere tuttavia è necessario vivere o meglio con-dividere le esperienze come qualsiasi comunità dovrebbe fare. Forse banale anche dirlo.
Quando i nostri governanti o i mezzi d’informazione parlano di ondate migratorie usano deliberatamente un vocabolo abusivo, quello di ondata. E dalle ondate, si sa, bisogna sempre e comunque difendersi con barriere, scogliere, dighe; lo sappiamo bene noi italiani che dobbiamo costantemente difenderci da quelle che il nuovo linguaggio chiama ‘bombe d’acqua’!
Sarebbe pertanto necessario correggere il tiro. Perché quello che si verifica quotidianamente sulle nostre coste dovrebbe essere definito più che altro flusso. Se iniziamo a chiamarli con il loro nome, forse non vi troveremo più l’immagine che li voglia fermare, impedire, bloccare. Perché si tratta propriamente di questo, di flussi di nuova energia, di nuova vita, di nuovi saperi, di nuove forze, che vengono a rinforzare le fibre di una comunità nazionale come la nostra, che è invecchiata, che produce poco lavoro manuale e che allo stesso non si piega più facilmente e che quindi ne utilizza milioni di braccia provenienti dal sud e est del mondo.
Da un articolo pubblicato sul nostro blog pochi giorni fa, infatti, emerge che sono circa 128 mila i lavoratori extracomunitari occupati nelle campagne italiane: poco più della metà (il 53,8%) è impiegato nella raccolta della frutta e nella vendemmia; un terzo (il 29,9%) nella preparazione e raccolta di pomodoro, ortaggi e tabacco; il 10,6% nelle attività di allevamento; il 3,2% nel florovivaismo e il restante 3,5% in altre attività come l’agriturismo o la vendita dei prodotti.
Il Belpaese utilizza a suo profitto milioni di queste braccia che non sono state invitate, ma che hanno rinnovato e rinnovano le energie e l’economia di questa Italia stanca. Si continua quindi ad usare un vocabolario falso nella comunicazione corrente che a volte, inconsapevolmente istiga all’odio e al rancore. Vorremo partire da qui per sottolineare la necessità di riappropriarsi delle parole e di un uso idoneo delle stesse sperando di contraddirle ribadendone una versione diversa, una versione più appropriata della parola che riguarda, come in questo caso, un fenomeno ormai costante e consolidato.
Partendo da un esempio scontato a cui forse nessuno fa più neanche caso vogliamo sottolineare la necessità di tornare a un altro modo di fare comunicazione. Una comunicazione analitica e scevra da tecnicismi in cui, l’obiettivo primario diventi quello di permettere che si aprono dei riflettori o forse meglio dire, dei veri e propri fari abbaglianti, sui nostri territori, le nostre comunità e in modo particolare le nostre campagne. Pensiamo che il taglio più giusto da seguire sia quello di fare inchiesta.
Non ci servono demagogie.
L’uso delle parole oggi è già di per se travisato e la comunicazione contiene perdita di responsabilità perchè deve spesso asservire ad un particolare momento, esaltare un argomento o un prodotto facendo in modo che si possa dire una qualunque cosa senza bisogno di verificarla, di controllarla, anzi, molto spesso, avendo la consapevolezza che è imprecisa.
Noi vogliamo tentare di fare un’Altra Comunicazione che sia capace di entrare nei fatti, verificarli, viverli utilizzando parole giuste, appropriate, esatte, sperando di raccontarvi realtà molto spesso dimenticate, che sono molto più drammatiche di come solitamente ce le rappresentano o di come le immaginiamo.
Un ruolo primario avrà nelle nostre pagine la crisi che le campagne vivono, quello che stanno attraversando i nostri contadini e che è divenuta secondaria in questo paese in cui il rurale è ormai considerato qualcosa di arretrato, che appartiene al passato in nome di una modernità e di un progresso che doveva consegnarci un paese diverso ma che in realtà è la rappresentazione del fallimento delle politiche economiche e sociali. Sulle campagne si è chiuso infatti, ogni spazio di dibattito e se a volte se ne parla lo si fa stancamente, con numeri e statistiche che non corrispondono alla realtà.
Vogliamo pertanto che le nostre parole, utilizzando nuovi mezzi di comunicazione che le rendano più veloci e ne moltiplichino gli scambi, reagendo ad ogni passo a tutto ciò che accade con la prima emozione e riflessione, diano dignità e identità ai nostri produttori perseguendo due direzioni: discutere e portare trasparenza nelle filiere e recuperare gli errori, mettendo nuovamente le aziende in grado di produrre e di ritornare a essere risorse per il territorio.
Lo sforzo che ci apprestiamo a compiere ha in sé la volontà di ricercare parole che portino responsabilità e non siano solo di semplice comunicazione, che producano uno scambio consapevole tra le persone che parlano e quelle che ascoltano perché, solo se siamo proprietari dei contesti, degli argomenti riusciremo facilmente a non farci abbindolare dagli imbonitori di turno proprio come in una fotografia, nella quale se l’oggetto non è adeguatamente messo a fuoco appare sempre oscuro e senza contorni.