Pubblichiamo da: AgoraVox (vedi originale)
Digitando su Google le parole “mercati km 0” si ottengono circa 210.000 risultati ed è il miglior indicatore di uno dei pochi parametri economici positivi della nostra economia agricola, in termini di numero di addetti e consumatori.
Un mercato che secondo una ricerca commissionata da Coldiretti a SWG ha registrato nel primo semestre del 2012 un incremento pari al 23 per cento (rispetto al precedente anno) degli acquisti fatti direttamente dal produttore. Una filiera corta che vale non meno di 3 miliardi di euro, a cui si accompagna un cambiamento significativo dei comportamenti dei consumatori. Ed è un dato di fatto che sempre più persone non si fidano di quello che trovano nei supermercati. Vorrebbero saperne di più dei trattamenti a cui vengono sottoposte le “loro verdure” o la frutta oppure su cosa mangiano e come vivono le vacche di cui bevono il latte.
A rispondere a queste esigenze, in parte raccolte dalle migliaia di piccole imprese di Campagna Amica di Coldiretti, da qualche anno si va affermando anche un vero e proprio movimento alternativo, costituito da famiglie che sfruttano anche i balconi di casa o anche da piccoli coltivatori, spesso part-time, che hanno portato in primo piano il diritto alla salute delle persone.
Non è un mistero che la catena agricoltura-ambiente-alimentazione sia sotto osservazione da decenni, almeno a partire dagli effetti teratogeni del DDT, utilizzato immediatamente dopo la seconda guerra mondiale, per arrivare a quelli della diossina quella storica di Seveso e la più recente dell’ILVA. Un discorso a parte meriterebbero i troppi antiparassitari e fertilizzanti, spacciati dalle imprese chimiche come innocui moltiplicatori della produttività. Ma i sempre maggiori costi economici per un maggior numero di trattamenti finiscono per mantenere, quando va bene, la stessa produzione dell’anno precedente.
È proprio sull’onda di questi segnali allarmanti che sono nate molte associazioni che considerano la terra un bene comune allo stesso modo dei semi della terra che una legge sul diritto d’autore ha paradossalmente applicato a qualcosa che nei secoli è stato oggetto di scambio tra coltivatori.
Genuino Clandestino è un esempio di come si possa oltrepassare il confine del classico km 0, definendo una proposta avanzata che metta al bando prodotti chimici di sintesi e colture intensive a favore di una cultura del cibo e del gusto. Si parla di agricoltura biologica o biodinamica, autocertificazione dei produttori, interessi comuni e solidarietà con i consumatori, regolarizzazione dei lavoratori dipendenti nei casi in cui sono presenti, niente lavoro nero.
Al momento sono 24 le associazioni presenti in molte regioni che aderiscono a questo manifesto dei valori dove all’economia di mercato si preferisce l’economia di relazione.
Cosa si vende in questi mercati? Insieme a ortaggi e frutta troviamo spesso anche latticini, vino, olio, prodotti da forno, marmellate, miele, salumi, grano. Presto si aggiungerà anche il piccolo artigianato che insegna, ad esempio, a fare i cesti o altri manufatti di cui si sta perdendo la memoria.
Ci si potrebbe aspettare che queste associazioni, visti i venti di crisi da tempo stazionari sull’Italia, siano viste come una manna dal cielo per le amministrazioni comunali, almeno per quelle più lungimiranti. Ebbene non è sempre così.
Accade che a Bologna l’Associazione Campi Aperti, una delle realtà più solide con 5 presenze settimanali e oltre 50 operatori, sia stata autorizzata da anni dal Comune a gestire i mercati secondo i rigidi principi che gli stessi soci si sono dati.
Si va dal rispetto del massimo contenuto di anidride solforosa nei vini al fatto che ogni produttore debba esporre una scheda che autocertifichi il rispetto delle norme di natura fiscale, amministrativa e sanitaria.
Ma qualche centinaio di chilometri a sud di Bologna non tutto fila per il verso giusto. È il caso di Oriolo Romano, piccolo comune in provincia di Viterbo (il comune più ecosostenibile d’Italia secondo Panorama), a due passi dal lago di Bracciano e a pochi chilometri da Roma.
Qui il Mercato Contadino, promosso dai soci dell’Associazione CCampo (Agri-cultura, Saggezza e Socialità), aveva goduto di un buon successo ed era stato “tollerato” dalla locale amministrazione comunale. Poi all’improvviso lo stop.
La mancanza di un regolamento, questa la versione ufficiale, cela probabilmente la protesta di qualche commerciante oppure il fatto che l’attuale legge in vigore non consideri valida l’autocertificazione dei prodotti trasformati nonostante gli associati CCampo siano vincolati a compilare le schede di autocertificazione.
E in questa vicenda c’è la riprova che l’Italia è davvero uno strano paese, dove tanta burocrazia, più che tutelare i consumatori, finisce con il favorire l’uso legalizzato di antiparassitari e concimi chimici o il lavoro irregolare, senza che nessuno controlli cosa realmente c’è negli ortaggi o sulla frutta. Basta un patentino per l’acquisto di prodotti chimici e va bene così.
Comunque sia, il Mercato di CCampo è attualmente fermo, in attesa della decisione che il Sindaco di Oriolo Romano adotterà, anche se basterebbe rifarsi alle buone pratiche di comuni come Bologna o Roma.
Intanto aspettando la seduta di Giunta che ha già subito un rinvio (la nuova data è il prossimo 7 marzo), i soci di CCampo non sono rimasti chiusi in casa. Hanno promosso una petizione tra consumatori interessati alla sopravivenza del Mercato e hanno indetto una prima manifestazione sulla piazza del Comune.
Gli artisti di strada hanno accompagnato per le vie del paese un’originale cucina itinerante per far scoprire che un cibo genuino non può rimanere clandestino, deve diventare un valore da condividere con la collettività. Per sabato 9 marzo si replica. Gli organizzatori di CCampo concedono il bis con la banda e l’offerta dei loro prodotti: una grande opportunità per rimettere all’ora giusta le lancette dei valori perduti.