editoriale del 4.5.21 di Fabio Sebastiani*
Gli effetti sulla salute causate dall’inquinamento atmosferico raggiungono solo in Italia una cifra compresa tra i 330 e i 940 miliardi di euro all’anno. Siamo al nono posto nel mondo per i decessi causati da gas e polveri sottili. Gli alimenti contaminati causano 600 milioni di malati e 420mila morti nel mondo e costano ogni anno almeno 100 miliardi di dollari nei Paesi a basso e medio reddito. Tutto questo si chiama “diseconomia dello sviluppo”. Eppure il percorso imboccato dal green washing è esattamente quello dell’affarismo verde. Ovviamente senza colpo ferire da parte dell’ambientalismo storico abituato come è a non farsi domande, un mutismo che ha continuato la sua devastante presenza anche in epoca Covid.
Il cosiddetto benessere economico, giocato come strumento del frazionamento degli interessi dei ceti sociali, è di fatto un anestetico che ci impedisce di vedere che continuiamo ad ammalarci e a morire a causa di uno sviluppo fatto di monopoli e di monocolture. E così tra un decreto Ristori e l’altro ci siamo abituati a partecipare alla lotteria del “io speriamo che me la cavo”.
Per fortuna la questione ambientale spinta dai cambiamenti profondi del clima e da un conto alla rovescia arrivato ormai ad un passo dal punto di non ritorno ha finito per smascherare chi dell’ambiente ha fatto una questione da elite culturali e affaristiche e non un interrogativo sul cosa produrre e come e sulla giustizia sociale.
Abbiamo urgenza di una nuova coscienza ecologista che difenda l’ambiente e gli esseri umani, specie quelli più socialmente e fisiologicamente fragili.
L’ecologia dello sviluppo sostenibile che chiede correttivi al modello capitalistico ha ormai ridotto l’ecologia a diventare una branca dell’economia senza riuscire a equilibrare la relazione tra uomo e natura. Tale ecologia è diventata obsoleta.
L’ecologia di cui abbiamo bisogno oggi deve diffondere una ridiscussione radicale del sistema economico fondato su tecnocrazia, competizione, iperconsumismo e iperproduzione e deve dimostrare che un altro mondo è possibile.
Tale mondo non solo è possibile ma è già esistente, lo è in quelle “manifestazioni di vita personale e comunitaria che conservano vitali elementi di un rapporto con la natura e tra la gente. Un mondo “spontaneamente ecologico”, come scriveva Langer, stilando un elenco oggi ancora valido: “dall’economia di sussistenza, alla coltivazione diretta, dall’agricoltura differenziata a tante forme ancora esistenti di artigianato, dalla sopravvivenza di forme comunitarie non-statuali e non-istituzionali, alla solidarietà vicinale e al mutuo aiuto, dall’ospitalità alla festa, dalle dimensioni stesse della vita quotidiana al modo di sentire e praticare tradizioni, costumi, idiomi, modi di dire”.
In Italia il movimento ambientalista che vuole affrontare l’emergenza climatica in termini accettabili ha attualmente due sviluppi. Uno è la versione italiana del Fridays for future, l’altro è una rinnovata coalizione tra i comitati in lotta contro le grandi opere, il nucleare, la terra dei fuochi o, se volete, un deciso radicamento nei territori.
I primi, guidati da Greta, propongono un triplice messaggio: delegittimazione delle élites; inversione del rapporto tra economia ed ecologia; incitamento all’azione diretta. Si tratta di un messaggio dirompente. Un messaggio che in Italia e nel mondo è stato rilanciato dai Fridays for future ed è risuonato fortissimo nelle varie manifestazioni. Da notare la composizione generazionale: la nuova cultura ecologica emerge tra le pieghe comunicative e le reti sociali dei millenials. C’è da mettere nel conto anche il movimento Extinction rebellion, particolarmente attivo in Gran Bretagna ma ormai presente anche qui, la cui composizione è più variegata in termini generazionali, con maggiore esperienza militante (si scorge una linea di continuità con il ciclo alter-mondialista degli anni Duemila) ma piuttosto omogenea da un punto di vista sociale, essendo in gran parte animato da appartenenti al ceto medio altamente istruito (almeno per ora).
Il secondo sviluppo lo conosciamo meglio. Chi lo anima esprime una composizione sociale variegata il cui collante sono comitati locali molto legati a questioni specifiche ma ormai pronti a “comporsi” su scala allargata.
La convergenza “politica” tra queste articolazioni è il terreno su cui credo si giocherà la tenuta del movimento. Due elementi mi sembrano rilevanti a questo proposito: da un lato lo scambio piuttosto fruttuoso che in alcune realtà si è già dato tra Fff e lotte territoriali – pensa solo al dibattito proprio qui al Festival dell’Alta Felicità, in cui esponenti Torinesi dei Fff hanno posto le basi per la costruzione di un fronte inclusivo di lotta climatica. Dall’altro la capacità (o meno) di inserire in questo fronte il mondo del lavoro: senza lavoratrici e lavoratori difficilmente il movimento per la giustizia climatica raggiungerà in tempi ragionevoli la massa critica necessaria per incidere sui processi decisionali.
L’obiettivo dovrebbe essere quello di incanalare le potenzialità espresse per esempio dai gilet gialli in Francia, ma anche dagli altri movimenti citati in precedenza, per arrivare a una convergenza che separi nettamente l’ecologia politica dei ceti sociali a vario titolo sfruttati e vessati dall’ecologia politica delle compatibilità sistemiche. Inoltre, è sempre attorno a questo nodo che si può porre in termini adeguati all’era del cambiamento climatico la questione del rapporto tra questione sociale e crisi ecologica, con la consapevolezza appunto che rispetto a quarant’anni fa, quando il tema emerse per la prima volta, le condizioni sono profondamente mutate. In questo senso il secondo punto discusso dalla Plateforme è decisivo perché mette in evidenza le forme di lotta dei gilet gialli (il blocco dei flussi, l’utilizzo del territorio in una forma alternativa rispetto a quello del sistema di circolazione e produzione delle merci) come un tentativo di assumere la centralità dei territori nella produzione di valore (e come una conseguenza del divenire politicamente rilevante della questione ecologica). Il loro obiettivo è quello di aggredire la produzione e la circolazione di valore laddove queste si danno in maniera più evidente che altrove. Una forma di lotta che aggredisce le modalità produttive contemporanee nei loro snodi fondamentali.
Certo, la probabilità che il movimento italiano per la giustizia climatica assuma una prospettiva di classe al momento è scarsa. Tuttavia, due elementi inducono a non demordere: il primo riguarda la sorprendente diffusione del dibattito teorico sull’ecologia politica – impensabile anche solo un anno fa – che sembra indicare che finalmente i movimenti in Italia sono pronti ad assumere il tema come fondativo della propria azione militante. Il secondo è che in un contesto come quello italiano, in cui la lotta di classe si fa ma fatica a trovare rappresentanza politica, la relativa indefinitezza della cornice ideologica dei Fff potrebbe rivelarsi capace di catalizzare efficacemente l’energia dei conflitti sociali.
Ciò che potrebbe accadere nel mondo dell’agricoltura, con una crisi profonda che sta gettando sul lastrico decine di migliaia di piccole imprese e, dall’altro, impedisce l’entrata delle giovani generazioni, potrebbe essere un buon anello di congiunzione, ovvero fare in modo che le rivendicazioni territoriali trasversali includano, esattamente come ci suggerisce il modello No Tav, anche l’occasione di confrontarsi sul modello di sviluppo. E’ chiaro che né la politica né l’ambientalismo affaristico potranno farsi carico di unire queste lotte, pensiamo per esempio alle grandi potenzialità del movimento anti-nucleare o quello contro i pesticidi. Sta quindi agli stessi protagonisti alla loro capacità di approfittare di una fase in cui non si sono sconti per nessuno. Bisogna solo avere il coraggio di osare andando oltre la paura e il soffocante senso comune
*Fabio Sebastiani è giornalista professionista e direttore di Radio Iafue