Editoriale del 19.1.21 di Fabio Sebastiani*
Chi sta subendo di più la morsa del virus in Italia, diciamolo, è la politica. Lo spettacolo da furbetti del quartierino offerto ieri dal parlamento ci fa davvero rimpiangere i tempi del passato in cui tra mille scossoni e contraddizioni la parola mediazione politica aveva ancora un senso. In un quadro di emergenza epocale chi dovrebbe guidare il paese non sembra mostrare non tanto una strategia ma almeno un po’ di lucidità e saper fare. Tutto viene ridotto a un mero calcolo momentaneo, a una tattica personalistica e senza respiro che, per carità, è certamente nel novero delle scelte possibili ma ormai ha completamente abolito il concetto di visione. Andrebbe sommessamente osservato che tutto questo è la conseguenza catastrofica della fine dei partiti. Si trattava comunque di organizzazioni che attraverso un minimo di radicamento nella società dovevano rispondere al corpo vivo del paese. Oggi tutto questo è passato remoto. E ci ritroviamo ceti di affaristi spietati e senza scrupoli, professionisti della pubblicità pronti a piazzare assurdi slogan tra i primi titoli dei telegiornali. Il sistema è drogato. E rischia di diventare nocivo per l’intero paese, per i cittadini stessi.
Il Virus da una parte e i miliardi di Bruxelles dall’altra hanno finito per mettere in evidenza le contraddizioni. E sono contraddizioni drammatiche. Nel momento in cui c’è da guardare oltre l’ostacolo la politica non solo guarda a se stessa ma utilizza l’ostacolo per regolare i conti al suo interno. E, ovviamente, mettere le mani sul malloppo.
Quanto possiamo andare avanti in questo modo? Chi tira i fili di questo caos sa benissimo che si andrà avanti finché il corpo sociale non farà sentire la sua voce. E forse è davvero questo il momento. Tutti gli analisti politici quando si esercitano sulla fase attuale tirano in ballo sempre il presidente della Repubblica. Vorrei ricordare però che la Costituzione italiana mette al primo posto il popolo. Si potrà osservare che è una magra consolazione visto che il popolo non è un organo istituzionale e politico. Ed è anche del tutto impotente costretto come è nelle forme della cosiddetta democrazia del voto. Il punto però è che il popolo in questo momento è unito da, mi si passi il termine, un ideale molto forte e di grande valore motivazionale: il virus.
Questa minaccia può diventare un principio ordinatore di primo piano nel guidare il protagonismo dei cittadini che a questo punto devono e possono agire nel loro interesse collettivo. E’ da lì che occorre partire per ritrovare quel linguaggio autonomo e unitario in grado di darci la forza di guardarci negli occhi. Il virus attiva immediatamente la condivisione e può rappresentare quell’orizzonte di dibattito e di confronto utile a darci uno scopo strategico e a capire chi, nell’emergenza sta davvero facendo i suoi personali interessi oppure è interno a un contesto collettivo. Gli strumenti ci sono perché in questi anni il corpo sociale di questo paese non è stato sempre e soltanto in finestra. Ha comunque trovato il modo di manifestare protagonismo e solidarietà. Oggi, paradossalmente, gli strumenti, a partire da quelli della comunicazione, si sono moltiplicati. E il virus può fungere benissimo da ideale del momento, da principio ordinatore in attesa che dentro un percorso collettivo si riesca a consolidare una nuova comunità di intenti.
L’ideologia è sicuramente morta. Al suo posto ci sono controfigure orribili, ma non sono morte le idee e la voglia di fare. E’ vero, il millenarismo d’accatto sta bruciando menti e coscienze. Ma credo che se la scelta continuerà ad essere tra questo e il caos non avremo speranze. C’è una maggioranza sociale silenziosa ma viva che aspetta solo il segnale giusto. E questa crisi virale e politica potrebbe essere il segnale giusto.
Da questo osservatorio privilegiato spesso parliamo di agricoltura e rigenerazione. Fuori di qualsiasi facile ideologizzazione forse quello che dovremo tornare ad acquisire è proprio il senso della rigenerazione. Per la natura è un moto spontaneo, necessario. Agli uomini dovrebbe appartenere in modo istintuale.
L’agricoltura ci parla anche della semplicità di questo percorso, della possibilità di trovarci all’interno di una stessa rete a partire dai bisogni primari. E’ forse questo il passaggio necessario che ci aspetta come maggioranza silenziosa. Tornare a capire tutti insieme quali sono i nostri bisogni effettivi. Chiudere definitivamente la falsa epoca dei falsi bisogni indotti dal mercato. Questo non ha niente a che vedere con la decrescita felice. Bisogna tornare a capire di che cosa ha veramente bisogno l’umanità. Non di cosa ha bisogno l’economia. Già soltanto i nostri modelli di consumo, le nostre pratiche di sussistenza sono una base importante per dare segnali di cambiamento e di protagonismo.
E l’agricoltura può rappresentare un grande modello culturale, millenario e consolidato. Questi lunghi mesi di assenza totale di relazioni ci stanno facendo capire che il bisogno primario è proprio quello del rapporto con gli altri. Partiamo da qui per mettere la prima pietra. Accettiamo di fare i primi passi insieme. Del resto, di alternative non ci sono. E questo, per fortuna, pare evidente a tutti. La necessità di uscire dall’emergenza sanitaria ci dà una direzione, sta a noi approfittare per consolidare questa opportunità in un percorso nuovo.
*Fabio Sebastiani è giornalista direttore e conduttore di Iafue PerlaTerra