La terra come unione di culture, la terra come riscatto, la terra come progetto di vita. È questo forse l’angolo visuale principale principale da cui osservare la storia di Agitu Ideo Gudeta, la 42enne uccisa alla fine dello scorso anno e che dall’etiopia è arrivata in una vallata del trentino per condividere non solo l’amore per la pastorizia, ma anche valori ed esperienze. La sua tragica fine ci fa fare i conti con tanti livelli di lettura diversi, come tante sono le ragioni che motivano le scelte chi chi oggi la terra la lavora come scelta di vita.
La storia di Agitu parte da lontano. Nata da un padre archeologo e una madre che proveniva da una famiglia agiata, ha appreso l’amore per le capre dai nonni. Si è laureata in sociologia a Trento, per poi tornare nella propria terra di origine.
In patria si è battuta contro il “grab landing”, il saccheggio e la privatizzazione delle terre etiopi che consegna in tutta l’Africa enormi appezzamenti fertili a grandi corporation, multinazionali, aventurieri e speculatori (spesso europei).
Agitu ha condotto numerose battaglie, fino a quando non è stata costretta a scappare. In conseguenza della repressione che il suo gruppo di giovani ha subito, molti suoi compagni di lotta sono stati imprigionati o uccisi e così lei ha scelto di tornare in una terra, quella trentina, che già la aveva accolta una volta. Si è così stabilita nella valle dei Mocheni, valle dove si parla ladino e la comunità vive coltivando l’identità delle sue radici.
Qui, in una terra “difficile” Agitu ha ricevuto dal prete del paese un pezzo di terra dove poter costruire la sua attività e un’aula didattica e, qui, è partito il suo lavoro. Ha saputo recuperare ettari terre in abbandono e valorizzarla come pascolo per il recupero della capra mochena, avviando la produzione di formaggi e creme cosmetiche, oltre a diverse iniziative sociali, come quelle per l’inclusione dei rifugiati.
Elemento fondamentale della sua esperienza però è stato, come detto, l’impegno sociale, civile e umano e il rapporto con la terra e la produzione di cibo. Ha saputo accende un riflettore, a cominciare dalla scelta di inserirsi in un territorio impervio, sia dal punto di vista ambientale che culturale, dove anche molti italiani non avrebbero resistito.
Lei, una migrante, è venuta in italia portando la battaglia civile che aveva condotto in etiopia. Forte della sua esperienza si insedia in italia, unendo l’amore per la terra e l’impegno civile, che insieme diventano elemento di riscatto civile e personale .
Esistono centinaia di esempi in agricoltura di imprenditori immigrati che sono riusciti a costruire storie di impresa positive ma Agitu non è stata semplicemente una “imprenditrice”: producendo economia a partire da scelte etiche, ha prodotto valore non solo economico ma anche sociale e culturale.
È questo forse la cifra più originale della sua storia. La sua azienda si chiama “le capre felici” e non è un caso: parte dalla centralità della condizione degli animali e delle persone di cui si occupa, investendo in un’idea diversa del rapporto con la terra e dell’impresa. La sua storia racconta della ricerca dell’equilibrio fra le regole dell’economia e degli investimenti e i contenuti sociali ed etici che ti permettono di andare oltre la devastazione del modello del cibo come speculazione su mercato tanto cara al modello0 neoliberista della crisi.
Oltre alla sua condizione di migrante che si insedia in una terra dove sempre meno italiani sono disposti a vivere e faticare portando la sua cultura dell’impegno civile, molti altri sono i punti di osservazione che ci vengono dalla sua storia, oltre alla sua condizione di migrante giovane che torna alla terra, contro lo spopolamento delle aree rurali, e di un lavoro etico. Agitu è una donna e sono sempre più le donne impegnate nel lavoro della terra.
La questione di genere si mostra ancora una volta un elemento sempre decisivo e originalissimo, contro uno stereotipo che vede l’agricoltura e la pastorizia troppo impegnativi per le donne. Al contrario il loro rapporto con la terra racconta di una relazione feconda nei lavori di cura, nell’attenzione e nel feeling con la natura.
E’ nella sua condizione di donna consapevole che ha affrontato le relazioni sociali insieme alla fatica del duro lavoro ed all’impegno di portare la sua cultura in un luogo in cui molti maschi avrebbero rinunciato; ed è, probabilmente, proprio da quella condizione e consapevolezza che le sono venute la determinazione di scelte che sta segnando la crescita di una nuova generazione di donne contadine sempre più protagoniste del ritorno alla terra.
Ma Agitu non è stata solo una donna era una giovane e, come tanti altri giovani che oggi scelgono di misurarsi con il lavoro della terra, nel mare e dell’allevamento ha dovuto fare i conti con le pastoie di una burocrazia assurda, con meccanismi e processi che escludono invece che includere, con le grandi difficoltà di disporre di credito e delle risorse finanziarie necessarie agli investimenti, con il problema della stessa disponibilità di accedere alla terra. E, da giovane, ha fatto quello che sempre più giovani stanno facendo in Italia, ha supplito con tanto impegno e lavoro alla mancanza di risorse opponendo alla burocrazia cieca l’idea della comunità, della rete, del rapporto diretto con i cittadini fruitori, dell’alleanza dei bisogni.
Infine bisogna dire che Agitu era soprattutto una pastora. Il rapporto con gli animali, la sua idea i una pastorizia che parta dal rispetto della terra, del territorio e della vita degli animali che allevi fino ad arrivare a mettere la loro felicità al centro del processo produttivo, sapendo che solo da un animale felice puoi arrivare a proporre un cibo “buono” è la condizione che le ha permesso di arrivare da pastora in una comunità di pastori. La sua idea di una pastorizia fondata sulla rinaturalizzazione del territorio, sul rispetto e l’amore per capre, ovini e bovini è, in fondo, il più grande lascito delle culture pastorali sia etiopi che italiane ed è su questo che è stato possibile l’incontro.
Agitu era tutto questo e, come tutte le vite, molto di più; in fondo, la sua testimonianza, come quella di altre realtà ed esperienze “migranti” che si insediano nelle nostre terre perseguendo un progetto di piena integrazione e riscatto o dei tanti giovani italiani e delle donne che tornano alla terra ci parla della modernità dell’agricoltura del futuro e del suo destino. Il lavoro della terra o è etico e carico di scelte e di contenuti sociali o continuerà ad essere quella della crisi e il cibo sempre più insicuro.
Purtroppo la sua vita è stata brutalmente interrotta in una fredda notte del dicembre 2020. Ci sarà chi si prenderà cura delle sue 80 capre ma la vera sfida per noi è interrogarci, imparare la lezione da chi si è insediata sulla terra inseguendo un progetto di riscatto e di integrazione piena e capire quanto sapremo approfittare e trarre insegnamento dalla sua storia.