Caterina Amicucci, ospite della puntata dedicata alle Buone Pratiche ci ha introdotti in un’interessante realtà italiana.
Si tratta della CSA Semi di Comunità, un’azienda agricola collettiva, in cui soci lavoratori e fruitori creano un patto di solidarietà e condividono benefici e rischi della produzione.
È il progetto di un’azienda agricola senza padrone, dunque, fondata non sul profitto, ma sull’equa redistribuzione del raccolto tra i soci.
Il termine CSA significa Comunità che Supporta l’Agricoltura in cui tutti i soci si distribuiscono cibo fresco, sano e prodotto nel rispetto dell’ambiente.
Nel racconto di Caterina si intravede un’importante fattore che è la socialità e il mutuo rispetto tra i soci nonchè fiducia reciproca. Fare una CSA sembra essere quindi una sorta di piccola rivoluzione sociale: un motore di partecipazione interpersonale potentissimo.
“Ognuno“, afferma Caterina durante l’intervista, “contribuisce alle attività della comunità decidendo in che termini supportare il lavoro contadino, mettendo a disposizione del gruppo quelle competenze che alla comunità stessa possano giovare. Un contributo questo che non ha prezzo.“
Ma come funziona la CSA?
I soci lavoratori stilano un piano delle colture, basato sul terreno a disposizione e sul numero di soci fruitori previsto e sottopongono il bilancio dei costi a tutti i soci per l’approvazione.
All’inizio dell’anno si decidono le quote annuali dei soci fruitori, dividendo il totale dei costi di produzione e gestione per il numero dei soci che intendono partecipare alla CSA, al netto delle altre possibili entrate, derivanti dai finanziamenti dei soci prestatori, sovventori, o dei fondi europei per l’agricoltura.
A ciascun socio fruitore spetta settimanalmente una parte dei prodotti coltivati che vengono ritirati presso alcuni punti di distribuzione o direttamente presso i campi.
Quello che emerge è che la produzione agricola, quindi, non è indirizzata al mercato, ma al consumo da parte dei soci stessi, che partecipano delle responsabilità e delle scelte dell’azienda, prefinanziando le coltivazioni e condividendo rischi e benefici della produzione.
Un passo deciso nella direzione della sovranità alimentare, insomma.
Chi è “Semi di Comunità”? Ispirata alla bolognese Arvaia, Semi di comunità è la prima CSA romana. Si tratta di una forma di organizzazione pensata per produrre e distribuire prodotti agricoli e, al contempo, tessere relazioni umane basate sulla condivisione e le buone pratiche di sostenibilità. Nelle CSA il cibo non è più legato al suo prezzo al chilo, ma al costo della produzione, delle piantine e del salario di chi le coltiva. E’ un sistema che annulla la distanza tra produttore e consumatore.
I terreni di “Semi di Comunità” si trovano a Roma Nord, all’interno del parco naturale di Veio. I 5 ettari complessivi sono in parte boscosi e in parte dedicati alla coltivazione biologica di ortaggi. La Comunità ha fatto precise scelte di progettazione agricola per la salvaguardia del suolo, tra queste la policoltura che permette di ampliare la varietà di ortaggi e di evitare l’impoverimento del terreno.
Per farne parte ci sono i soci lavoratori che coltivano ogni giorno i campi, i soci fruitori che prefinanziano la produzione dando un contributo economico per l’assegnazione di una quota annuale di prodotti; i soci prestatori che finanziano con un prestito di denaro la produzione; e i soci donatori che possono donare una somma, uno strumento di lavoro o parte del loro tempo e delle loro competenze alla CSA.
Una volta alla settimana le verdure raccolte vengono distribuite ai soci fruitori, attraverso alcuni punti di distribuzione collocati in diverse parti della città e la cui organizzazione è affidata ai soci stessi.
Insomma inutile dire che il progetto CSA Semi di Comunità ha un valore particolare per una città come Roma, perché ristabilisce il legame interrotto con la terra, aggrega persone, crea occasioni di formazione e integrazione, diffonde una cultura ambientale rispettosa della natura e dei suoi ritmi e riafferma il valore del cibo buono e autoprodotto.
Siamo rimasti affascinati dal racconto di Caterina e di come una comunità possa auto-regimentarsi e ritornare alla terra senza grandi ragionamenti. Quello che ci sorprende è che, come l’Amicucci testimonia, ci sono tanti soci in attesa di entrare in CSA perchè alla fine la presenza di quanti soggetti entrino dipende dal quantitativo di terra che si ha a disposizione e per questo, ci ha positivamente sorpreso che sono in programma la costituzione di altre CSA nella capitale.
L’appuntamento con Iafue perlaTerra è, quindi, a un nuovo incontro con altre realtà simili a quella romana per poterle raccontare e metterle a confronto, insieme in un appuntamento complessivo dal quale possano emergere proposte e superare eventuali conflittualità lì dove dovessero presentarsi.